Nietzsche, il bambino e l'innocenza del divenire
𝐋'𝐢𝐧𝐟𝐚𝐧𝐳𝐢𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐟𝐢𝐠𝐮𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐮𝐩𝐞𝐫𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨
Nietzsche mette il bambino alla fine, non all’inizio. Nelle tre metamorfosi dello spirito – «cammello, leone, bambino» – l’infanzia non è l’età da cui si parte, ma la figura in cui si arriva quando il lavoro del superamento è compiuto. Prima c’è il carico: il cammello che si fa caricare di doveri, colpe, ideali pesanti. Poi c’è la negazione: il leone che dice «no» alla grande morale del «tu devi». Solo dopo può apparire il bambino: «un sacro dire di sì», la capacità di ricominciare, di giocare, di creare valori senza più appoggiarsi a comandamenti esterni. L’infanzia, in Nietzsche, non è nostalgia del passato, è stile del futuro.
Se prendiamo sul serio questa figura, il bambino nietzscheano è l’esatto opposto del bambino romantico: non è purezza originaria, vicina al “buon selvaggio” e alla natura incontaminata. È piuttosto una purezza conquistata, una seconda innocenza dopo la disillusione. Il leone ha già smascherato la morale come costruzione storica, come dispositivo di addomesticamento; il bambino è ciò che resta quando quell’opera di smascheramento non si cristallizza in risentimento, ma si trasforma in forza plastica. Dove il leone distrugge, il bambino gioca: non perché ignori la genesi storica e artificiale di quei valori, ma perché li ha già visti cadere e tuttavia non si lascia paralizzare da ciò che ha scoperto.
Per questo il bambino è una figura temporale oltre che simbolica. Nella storia della morale il tempo è quasi sempre il tempo della colpa: ricordare il debito, ricordare il torto, ricordare la promessa. Il dispositivo del potere, per Nietzsche, funziona incidendo la memoria: si rende l’uomo “calcolabile” imprimendogli il passato sulla pelle. L’infanzia come figura del superamento va in senso opposto: non cancella la memoria, ma la perde di assolutezza. Il bambino è colui che dimentica abbastanza da poter ricominciare. Non è amnesia, è selezione: la capacità di lasciare andare ciò che non serve più alla potenza di crescere.
Anche la famosa «innocenza del divenire» passa da qui. Dire che il mondo è innocente significa, per Nietzsche, sottrarlo alla grammatica del tribunale: niente giudice ultimo, niente bilancio finale, niente compensazione ultraterrena. Ma un mondo senza giudice è, per l’uomo cresciuto nella morale, un mondo insopportabile: niente garanzia, niente risarcimento, niente giustificazione. Il bambino è l’immagine di un tipo umano capace di sopportare questa innocenza senza implodere: gioca nel divenire invece di chiederne il senso ultimo. L’infanzia diventa così il “volto psicologico” dell’oltreuomo: non l’eroe titanico, ma chi sa stare nel gioco senza appoggiarsi a un perché definitivo.
C’è anche un lato stilistico, quasi tecnico. Nietzsche non dice soltanto che occorre “diventare come bambini”: scrive come se volesse produrre quel bambino nel lettore. Aforismi brevi, immagini folgoranti, salti di registro, ironia: è una prosa che disabitua alla linearità scolastica e costringe a un gesto attivo, quasi ludico. Il lettore non riceve una dottrina, entra in un campo di forze. In questo senso il bambino è anche la figura di un lettore possibile: non il credente che cerca dogmi, ma chi si espone al testo come a un gioco serio, rischioso, in cui si può perdere se stessi e ritrovarsi diversi.
L’infanzia come superamento è allora pure una risposta al nichilismo. Davanti al crollo dei vecchi valori ci sono due vie: irrigidirsi nel rimpianto (forme sempre nuove di reazione, di “ritorno all’ordine”, di restaurazione mascherata) oppure attraversare il vuoto fino a trovare una nuova leggerezza. Il bambino nietzscheano è la seconda via: ha perso Dio, ha perso il fondamento, ma proprio per questo è libero di prendere la vita come campo di esperimento. L’oltreuomo non è un mostro sovrumano, è un certo modo di dire «sì» dopo aver guardato il «no» fino in fondo.
Infine, il bambino spezza la grande opposizione morale fra “serio” e “gioco”. Per Nietzsche il gioco non è evasione, ma forma suprema di serietà: solo chi gioca davvero rischia qualcosa di sé, mette in palio il proprio stile, non si rifugia nella legge, nel ruolo, nella tradizione. L’infanzia è figura del superamento perché incarna questa serietà leggera: non moralizza il mondo, lo trasforma; non chiede giustificazioni, sperimenta. Dove l’adulto morale calcola, il bambino prova; dove l’adulto teme di sbagliare, il bambino accetta l’errore come parte del gioco. In questo scarto sta la potenza nietzscheana dell’infanzia.
Se c’è un’infanzia che Nietzsche indica, quindi, non è quella che abbiamo dietro le spalle, ma quella che ci manca: l’età che si conquista, se si ha il coraggio di portare il cammello nel deserto, lasciare ruggire il leone e, alla fine, tornare a giocare senza più chiedere al mondo di essere altro da ciò che è.
- 𝐄𝐫𝐚𝐜𝐥𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐢𝐚𝐥𝐭𝐨