Eraclito di Rialto. Cioè, chi?
𝐁𝐫𝐞𝐯𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐦𝐞𝐦𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐝𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢𝐜𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐝𝐢 𝐦𝐞
Sono arrivato a Nietzsche per sottrazione: tolto il catechismo della mia infanzia, tolta la fede ingenua nella “coscienza storica”, tolta la filosofia come museo di sistemi. Restava il rumore di fondo: dolore, gioia, desiderio che non sa darsi misura. Lì ho trovato una voce ruvida che diceva: «Divieni ciò che sei». Non promessa, non morale, ma un compito.
Il primo incontro vero è stato in una libreria dell’usato, alla fine del liceo: un’edizione sgualcita della “Gaia scienza” con una dedica del 1968, «per ricordare che la festa è una cosa seria». Ho letto l’aforisma 125 in una sala d’attesa d’ospedale, tra bip elettronici e sedie di plastica; “Dio è morto” suonava meno come annuncio e più come diagnosi di un corpo – il nostro - che aveva finito l’adolescenza. Tornato a casa ho sottolineato «noi lo abbiamo ucciso» e ho capito che non cercavo un assoluto: cercavo responsabilità.
A Padova ho studiato filosofia e filologia tedesca per decenza e per orgoglio. Decenza: non si può parlare di Nietzsche senza confrontarsi col suo testo, in tedesco. Orgoglio: un professore mi disse «Nietzsche non ha sistema»; io risposi, ingenuo e insolente, «ha qualcosa di più esigente di un sistema: lo stile». La mia tesi nacque in biblioteca tra pile di fascicoli: “Genealogia della morale” come manuale di patologia dei valori, letta in controcanto con i “Discorsi di Epitteto” e con la nostra piccola tradizione corporativa romana (collegia, mutualismo, disciplina: l’ho usata come lente sulle morali del lavoro che frequentavo per pagarmi l’affitto). Sotto la correzione rossa del relatore—«meno lirismo, più cronologia»—ho imparato a distinguere dati, interpretazioni, congetture. Nietzsche mi ha insegnato la spietatezza su di me prima che sugli altri. Il mio mestiere ufficiale è stato per anni quello dell’editor: correggere testi altrui, togliere grasso, restituire nervo. Una palestra perfetta per Nietzsche: anatomia della frase, igiene dell’argomento, economie di stile. Mi sono accorto presto che la “volontà di potenza” su carta si vede nelle dipendenze sintattiche: dove un’idea comanda e dove invece barcolla e chiede stampelle retoriche. Un giorno ho tagliato tre pagine a un autore famoso; lui mi ha chiamato furioso, poi ha richiamato calmo: «Avevi ragione, era Mitleid verso me stesso». Il mio quaderno ha una riga per quella telefonata: la pietà come vizio di scrittura.
Nel frattempo tenevo un seminario serale in un centro culturale periferico - dieci sedie, caffè bruciato, neon tremolante. Portavo Genealogia, Zarathustra, qualche pagina dei Frammenti postumi. Una volta è venuto un prete giovane: «È un pensiero disperato, il vostro». Ho risposto: «Disperato è chi cerca garanzie». Abbiamo finito con “Sull’uso e l’abuso della storia” quello scritto mi ha dato la misura della mia epoca - sazia di memorie, povera di forme.
Un aneddoto che non confesso nei convegni: ho imparato più Nietzsche in due camminate solitarie che in cento bibliografie. La prima, lungo un canale industriale dietro casa, con il vento che spingeva carta e polvere: ripetevo «sì e ancora sì» come se fosse un esercizio di respirazione. La seconda, in una domenica di novembre, a Sils-Maria. Nulla di mistico: un tavolo di pensione svizzera, formica screpolata, taccuino, una pagina della “Gaya Scienza” sul caso e la danza. Ho capito che “eterno ritorno” non è una teoria del cosmo: è un test del carattere. Sei capace di volere che ogni cosa - questo sorso d’acqua, questa vergogna, questa frase malriuscita - torni ancora? Io, quel giorno, non ne ero capace. A un certo punto ho incrociato il buddhismo, e ho visto meglio Nietzsche. La clinica buddhista spegne la sete; il martello genealogico non spegne, tempra. Quando ho raccontato questa differenza a una studentessa, lei ha detto: «Quindi Nietzsche è per pochi». Ho risposto che non è questione di aristocrazia, ma di fisiologie: c’è chi guarisce abbassando la temperatura e chi guarisce reggendola. In quell’istante ho sentito il pensiero diventare pratico—non un tribunale, un ambulatorio.
Ho insegnato per un semestre “teoria della narrazione” in un’accademia di belle arti: ho portato Nietzsche come maestro di montaggio. Nell’ultima lezione ho chiesto di riscrivere “Il malato immaginario” come Genealogia. Una ragazza, operaia di giorno, ha portato un testo dove la malattia diventava un lusso morale. Le ho regalato un’edizione tascabile di “Umano, troppo umano”. A volte il filo passa.
Un altro episodio: in un dibattito radiofonico uno storico mi ha inchiodato su un punto giusto: il rischio di travestire la propria idiosincrasia da filosofia. Ho balbettato. Tornato a casa ho riletto le lettere a Fritsch, il fango del suo tempo, il pericolo sempre vivo di usare Nietzsche come manganello. Mi sono imposto una regola: ogni volta che scrivo “risentimento”, devo prima controllare il mio. Nietzsche non assolve nessuno, men che meno chi lo cita.Vivo di lavori editoriali, corsi serali, qualche consulenza sulla comunicazione (parola che non amo, ma paga l’affitto). Ho rifiutato un paio di cattedre precarie troppo lontane e troppe promesse a termine: ho preferito una libertà povera ma maneggiabile. Ho una libreria piccola e militante: greci essenziali, moderni pochi ma indispensabili, scienza quanto basta per non dire sciocchezze. Tengo un’agenda con tre liste: “forza”, “stile”, “debiti”. Nella colonna “debiti”, ogni mese, aggiungo un nome e un gesto: chi mi ha corretto, chi mi ha fermato, chi mi ha costretto a riscrivere. È la mia contabilità morale; Nietzsche ci avrebbe riso, ma forse di un riso buono.
Ho accettato l’invito di Miro Renzaglia a scrivere (gratis, lo dico perché so che ci tiene a ricevere doni e a ricambiarli) per il Fondo perché qui si può fare un lavoro di bottega: un atlante minimo dei nodi operativi di Nietzsche - chiaro senza essere semplificato, quasi didattico nel senso buono. Ho messo in fila strumenti: nichilismo come diagnosi dei valori in crisi, trasvalutazione come officina del linguaggio, volontà di potenza come dinamica di forme (non dominio), eterno ritorno come test del carattere, oltreuomo come figura di stile; accanto, i reagenti morali - risentimento e Mitleid- da riconoscere al primo odore. Scrivo sotto pseudonimo per quattro ragioni: perché i testi siano giudicati per rigore e forma, non per curriculum; per schermare il mio lavoro editoriale e i rapporti professionali dalle polemiche a bassa quota; per concedermi libertà sperimentale senza traffico di reputazioni; per coerenza teorica - se l’“io” è una finzione grammaticale, firmare con un nome d’arte rende visibile che qui conta lo stile come prova. “Il Fondo” è il posto giusto: pretende chiarezza senza addomesticare gli spigoli e chiede responsabilità di forma. Spero che questi pezzi spostino la conversazione da “chi ha ragione” a “che lavoro tocca fare su di sé”.
Dovrebbe, a questo punto, essere abbastanza chiaro perché amo Nietzsche. Primo: perché non consola. Secondo: perché non pretende l’innocenza che non ho. Terzo: perché mi ricorda che la “verità” non è una coperta termica ma un’esposizione: ti mette a nudo e ti chiede di dare forma a quel nudo, di reggerlo senza divinità di scorta. Quarto: mi ha insegnato a non confondere il dolore con la nobiltà, la sofferenza con il credito morale, l’arte con l’alibi. E, cosa più difficile, mi ha insegnato a non idolatrare lui: «E ora vi comando di obliar me e di cercare voi stessi: solo allora che voi tutti mi avrete rinnegato, io tornerò fra voi. In verità, o miei fratelli, con altri occhi cercherò allora quelli che ho smarrito: d’un altro amore allora v’amerò.» (Così parlò Zarathustra, “Della virtù che dona”).
Questa è la mia biografia per difetto: quel che resta quando togli i miti personali. Se domani la riscriverò, spero di poter segnare una sola avanzo: più stile, meno scuse. Nietzsche, a fine giornata, è questo: un invito a guarire senza perdere temperatura. La diagnosi è dura; la terapia è lavoro. E non si delega.
-𝐄.𝐝.𝐑.