USA-RUSSIA. 28 punti che mettono in gioco il principio di integrità territoriale Ucraina e il ruolo dell'UE
Chiamarlo “accordo segreto” fa comodo a tutti: a Mosca per far trapelare l’idea che la partita con Washington sia già in via di chiusura, a Washington per far capire che “un piano c’è”, alle opinioni pubbliche stanche per immaginare che la guerra in Ucraina abbia finalmente un’uscita. Giuridicamente, però, di accordo non si può parlare: quello che circola è un piano in 28 punti preparato in un canale riservato USA–Russia, un blueprint politico che dice molto sulle intenzioni delle parti e poco, per ora, sul risultato finale.
Il cuore dell’operazione è semplice: trasformare una guerra d’attrito in un conflitto congelato, fissando su carta un cessate il fuoco lungo le linee attuali o quasi, con qualche meccanismo di verifica tecnica e un pacchetto di contropartite sul terreno delle sanzioni e della sicurezza europea. L’Ucraina e l’Unione europea entrano a questo tavolo dopo, come soggetti da convincere o da mettere di fronte al fatto compiuto. È questo sbilanciamento iniziale che merita uno sguardo europeo, non soltanto strategico ma anche giuridico.
Da un lato, la Russia. Per il Cremlino un piano del genere è l’occasione per cristallizzare i guadagni territoriali ottenuti dal 2022 in poi: trasformare le linee del fronte, nate da un’aggressione, in nuove frontiere di fatto, coperte da un cessate il fuoco benedetto dagli Stati Uniti. La narrativa è già pronta: Mosca non cede sulle sue condizioni “di principio” (Donbas sotto controllo russo, status speciale o neutralità dell’Ucraina, nessuna presenza NATO sul suo territorio), ma si presenta come attore responsabile che accetta di “fermare i combattimenti” in nome della stabilità. Il messaggio all’interno è: abbiamo resistito alle sanzioni e ora l’Occidente viene a patti.
Dall’altro lato, Washington. L’amministrazione Trump ha bisogno di una formula che le permetta di dire di aver chiuso la guerra senza una sconfitta spettacolare di nessuno: niente resa incondizionata di Kiev, niente arretramento dichiarato della NATO, ma un pacchetto che fermi i combattimenti, alleggerisca la pressione militare sul bilancio americano e apra la strada a un graduale allentamento delle sanzioni più pesanti. In questo senso il piano a 28 punti è perfettamente coerente con l’uso del “deal” come strumento di politica estera: un testo numerato, un cessate il fuoco rapido, molte clausole elastiche che potranno essere interpretate secondo convenienza.
Il problema, per Kiev, è che tutta questa architettura parte da un presupposto implicito: la linea del fronte come dato di fatto. Congelare il conflitto “dove siamo oggi” significa accettare che una parte dei territori occupati resti fuori dal controllo ucraino per un tempo indefinito, con un riconoscimento de facto delle annessioni proclamate da Mosca. Anche se sulla carta si può continuare a ribadire l’integrità territoriale, la sostanza è un’altra: l’Ucraina verrebbe spinta a scambiare porzioni del proprio territorio con garanzie di sicurezza e protezione politica occidentale.
Per l’Unione europea questo non è solo un tema “morale”. È una questione di precedente giuridico e di architettura di sicurezza. Il sistema europeo post-1945 si regge su un principio base: i confini non si cambiano con la forza. Ogni volta che si è derogato a questo principio – pensiamo ai riconoscimenti tardivi e malgestiti nelle guerre jugoslave – il risultato è stato un contenzioso aperto per decenni. Legittimare, anche solo in forma implicita, l’idea che un’aggressione militare possa sfociare in un cessate il fuoco che congela le conquiste equivale a riaprire la porta a scenari simili in Moldova, nei Balcani, nel Caucaso.
C’è poi un tema di ruolo politico. Un piano scritto a quattro mani da Washington e Mosca, che arrivi sui tavoli europei già confezionato, riduce l’UE al ruolo di spettatore chiamato a pagare il conto: ricostruzione dell’Ucraina, gestione dei rifugiati, rafforzamento delle difese orientali, tenuta delle sanzioni residue. L’Europa si troverebbe a ratificare un compromesso deciso altrove, e a farlo proprio nel momento in cui il suo discorso pubblico si è costruito – per due anni – sul mantra “nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina”.
Questo non significa che il piano vada respinto a priori. Un blueprint non è ancora un accordo: è uno strumento di pressione che può essere usato in entrambe le direzioni. Il punto è come. Se l’Unione europea accetta lo schema come dato, limitandosi a chiedere qualche ritocco di forma, allora conferma il messaggio che il vero gioco si fa tra Washington e Mosca, e che il diritto internazionale può essere piegato alla ragion di Stato dei più forti. Se invece Bruxelles riesce a portare quel testo dentro una cornice multilaterale – ONU, Consiglio d’Europa, formato con l’Ucraina al centro – può provare a rovesciare la logica: utilizzare i 28 punti per misurare la disponibilità reale del Cremlino, legando ogni passo sul cessate il fuoco a condizioni verificabili su ritiro di truppe, restituzione di bambini deportati, accesso agli impianti critici, responsabilità per i crimini di guerra.
Il discrimine sta tutto qui. Un piano del genere, letto con gli occhi dell’ordinamento europeo, non è “buono” o “cattivo” in sé: è un contenitore che può stabilizzare un’ingiustizia o accompagnare una de-escalation condizionata. Dipende da come vengono scritti (e fatti rispettare) i rapporti tra cessate il fuoco, sanzioni, sicurezza a lungo termine. Depotenziato, diventa il modo elegante per certificare una mutilazione territoriale. Irrigidito su principi chiari, può trasformarsi in una trappola per chi non intende arretrare davvero.
Da questo punto di vista, parlare di “accordo segreto” rischia di distrarre dal punto essenziale. Il problema non è se esista già una firma nascosta, ma chi sta scrivendo le regole del dopo. Se a farlo saranno solo Washington e Mosca, l’Europa scoprirà di essere un teatro e non un attore. Se invece l’Unione riuscirà a far valere fino in fondo il proprio lessico – integrità territoriale, stato di diritto, divieto di acquisizione di territorio con la forza – allora il piano a 28 punti potrà essere ricordato non come la formula della resa, ma come il banco di prova su cui il Cremlino ha dovuto finalmente mostrare se vuole davvero la pace o soltanto una pausa.
— 𝐒𝐞𝐯𝐞𝐫𝐢𝐧 𝐀𝐳𝐢𝐦𝐮𝐭