Morire altrimenti - di Gianluca Corrado

Morire altrimenti - di Gianluca Corrado

𝐑𝐢𝐟𝐥𝐞𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐟𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐜𝐡𝐞

Scheda libro
Titolo: Morire altrimenti. Riflessioni filosofiche
Autore: Gianluca Corrado
Collana: Micromegas
Editore: Edizioni Solfanelli (Gruppo Editoriale Tabula Fati), Chieti
Anno: 2010
Pagine: 136
ISBN: 978‑88‑89756‑94‑2
Prezzo: € 9,00
Acquisto: www.edizionisolfanelli.it

Ci hanno insegnato a maneggiare la morte come un interruttore: vita/assenza di vita, pieno/vuoto. Corrado rompe la cornice e chiede di rifare l’officina concettuale, a partire da un gesto semplice e scandaloso: sospendere la certezza del nulla come si sospende la certezza del paradiso. Non per contrabbandare consolazioni, ma per recuperare il diritto filosofico al possibile. L’operazione è doppia. Da un lato separa morte e decesso: il decesso è un fatto clinico-sociale, misurabile nei protocolli e nella tecnica; la morte resta questione ontologica, punto cieco dove la cultura moderna ha trasferito frettolosamente un “nulla” che è spesso un’abitudine logica più che un risultato di pensiero. Dall’altro lato toglie all’aldilà religioso la sua plastica biomorfa: ciò che sta “oltre” non è il prolungamento della vita in scala maggiore, perché quella immagine antropomorfica, quando c’è, è solo il riflesso della nostra esigenza narrativa.

La premessa imposta la mossa metodologica: contro il verificazionismo che chiede prove di laboratorio anche dove per struttura non se ne danno, Corrado ricorre a una prudenza popperiana (diffidare delle generalizzazioni induttive travestite da certezze) e alla lezione di Blanchot (la morte come esperienza-limite che non si possiede). Ne viene un principio sobrio: è intellettualmente illegittimo trattare la morte come un “sapere garantito”, perché la nostra posizione è strutturalmente laterale rispetto al suo accadere. Questo non autorizza il dogma opposto, bensì un eventualizzare l’essere: una finestra che si apre senza promettere vedute. L’Occidente contemporaneo, dice Corrado, ha rimosso questa finestra: da una parte l’iconografia religiosa che colonizza l’oltre con immagini della vita; dall’altra lo scientismo che sigilla la domanda nel vocabolario del “niente” come esito necessario. La rimozione produce effetto etico: non si pensa più la morte, si delega; non si ascolta più il suo peso nella vita, si normalizza il decesso.

Il passaggio sui classici del Novecento non è antiquariato. Heidegger e Sartre servono a chiarire cosa accade quando dici “umano” di fronte alla morte. Se la riduci a pura non‑vita, la tieni sotto la reggenza della vita: il negativo come controfaccia necessaria del positivo, un capitolo dialettico. La domanda di Corrado è spiazzante nella sua semplicità: la morte ha un in‑sé minimo pensabile senza affermarlo positivamente? Si può riconsegnare al pensiero un tratto non‑negativo, non come possesso, ma come scommessa razionale che autorizza la ricerca e frena tanto l’idolatria dell’aldilà quanto il nichilismo amministrativo? La risposta prende forma nelle pagine centrali, dove l’autore smonta il sillogismo implicito che dalla mancata “esperienza” della propria morte deduce il nulla assoluto. Quell’“è ovvio che…” non è filosofia: è costume intellettuale.

La distinzione tra morte e decesso, qui, non è un sofisma lessicale ma una cerniera pratica. Nel decesso si giocano prassi, diritti, mediche e comunitarie; la morte eccede quel confine e rimanda alla struttura del nostro dire/immaginare. Se confondi i piani, o sacralizzi il morto con mappe esatte dell’aldilà o cancelli la questione con un “non c’è niente” che pretende lo status di conclusione. Corrado propone una terza via: eventualizzare l’essere. Che cosa significa? Tenere aperta la possibilità non positiva e non negativa, cioè non già affermata né già negata; lavorare con concetti sobri (limite, finitezza, differenza) senza confonderli con le immagini. È, in fondo, una pedagogia del pensiero: evitare gli assoluti ingiustificati e anche l’anti‑assoluto che si fa assoluto del nulla.

Quando il libro affronta il tema più scivoloso — il suicidio — lo fa con una serietà che manca a molta pubblicistica. Non apologia, non anatema: diagnosi del tabù contemporaneo e sua disattivazione concettuale. Se la cultura attivista ha bisogno di esecrare il suicidio per proteggere il mito della produttività infinita, la tradizione religiosa lo stigmatizza per proteggere la trascendenza positiva. Corrado riconduce il discorso nell’alveo di una cura di sé non riducibile a manuale di benessere: pensare la possibilità estrema come posto di responsabilità, domandando alla comunità di esprimere giudizi articolati invece di sanzioni rituali. Anche qui la distinzione morte/decesso conta: il decesso come fatto amministrato, la morte come problema di senso. Il punto non è convocare il lettore al pendio scivoloso del “tutto è lecito”, ma alla fatica di un giudizio che tenga insieme libertà, legami, conseguenze.

Nella sostanza, Morire altrimenti è un libro contro due pigrizie simmetriche: la pigrizia della teologia spiegata (che riempie l’oltre di figure della vita) e la pigrizia dello scetticismo spiegato (che salda la questione nel nulla come se fosse un dato). In mezzo c’è un lavoro più umile e più serio: rimettere in moto le categorie con cui abitiamo il limite, senza trasformarle in statue. È anche un libro politico in senso alto: denuncia una gestione sociale della morte che preferisce il decesso protocollare alla domanda sul finire, e mostra come questa preferenza produca conseguenze sulla qualità dei legami e sulla nostra grammatica del dolore.

Che cosa resta al lettore dopo l’ultima pagina? Non una dottrina, ma un metodo: distinguere i piani, disinnescare le ipostasi, esercitare la vigilanza sul dicibile (sapere quando fermarsi senza cedere al mutismo), restituire alla filosofia il suo mestiere: pensare il possibile. Se la scommessa riesce, cambia il nostro modo di ascoltare la morte nel quotidiano: non più come punto fermo che obbliga a girare lo sguardo, ma come interrogazione attiva che corregge la nostra arroganza teorica e la nostra fretta morale. Non consola, ma libera: dalla stupidità del “così è” e dal suo rovescio, la sicurezza del “così non è”. In quella fenditura — senza dogmi — si misura la chiarezza dello sguardo.

— 𝗠𝗶𝗿𝗼 𝗥𝗲𝗻𝘇𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮