L'asse Washington - Mosca contro l'Europa
𝐒𝐞 𝐥'𝐔𝐧𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐭𝐭𝐚 𝐢 𝟐𝟖 𝐩𝐮𝐧𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐥 "𝐏𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐑𝐞𝐬𝐚" 𝐞̀ 𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐟𝐢𝐧𝐞
Il piano in 28 punti non è una via d’uscita negoziale: è una resa gestita da Washington e Mosca e scaricata su Kiev e sull’Unione europea. Se l’UE lo accetta, ammette che la forza russa possa ridisegnare i confini europei e che la sicurezza del continente venga decisa sopra la sua testa. Se vuole difendere il proprio ordinamento – non solo l’Ucraina – deve fare l’opposto: respingere il testo, mantenere il regime di sanzioni contro la Russia e aumentare in modo strutturale il sostegno militare a Kiev.
Il contenuto politico-giuridico del piano è ormai leggibile, al netto delle differenze di versione. Il nucleo è semplice: l’Ucraina sarebbe costretta a riconoscere come “de facto russi” Crimea, Donetsk e Luhansk, con linee di contatto congelate nelle regioni di Kherson e Zaporizhzhia che cristallizzano l’occupazione su una fetta rilevante del territorio. A questo si aggiunge un impegno costituzionale a non aderire mai alla NATO, il divieto permanente di truppe dell’Alleanza sul suolo ucraino, un ridimensionamento sostanziale delle forze armate di Kiev. In cambio arriverebbero “garanzie di sicurezza” occidentali volutamente vaghe, nessun articolo 5, nessun automatismo di difesa collettiva. Sul fronte economico, il piano prevede un riallineamento graduale delle sanzioni, fino al rientro della Russia nei formati di cooperazione con il G7, e l’uso di una quota consistente di asset russi congelati per la ricostruzione ucraina, ma incanalati in strumenti finanziari controllati dai partner occidentali. Sul fronte della giustizia, a Kiev si chiede di rinunciare in tutto o in parte alle azioni giudiziarie contro Mosca per crimini di guerra, aggressione e riparazioni, in nome di una generica “riconciliazione”.
Tradotto nel linguaggio del diritto internazionale, la Russia ottiene il riconoscimento di conquiste territoriali ottenute con la forza; l’Ucraina viene trasformata in uno Stato formalmente indipendente ma sostanzialmente neutrale a sovranità limitata; la responsabilità internazionale dell’aggressore viene sterilizzata. È in contraddizione diretta con il principio di integrità territoriale e con il divieto di riconoscere situazioni create dalla forza, che sono il cuore della Carta ONU e dell’ordine europeo del dopoguerra.
A pesare non è solo il contenuto, ma anche il metodo. Il piano nasce da un canale bilaterale Washington–Mosca, senza un coinvolgimento sostanziale né dell’Ucraina né dell’Unione europea. A Kiev viene posto un ultimatum politico: firmare entro una data simbolica, a pena di vedere ridotti flussi cruciali di armi, intelligence e sostegno finanziario. L’UE viene informata e invitata ad “accompagnare”, non chiamata a co-determinare. Il risultato è una triangolazione asimmetrica: Mosca usa il controllo territoriale e il fattore tempo, Washington usa la leva della dipendenza militare e finanziaria, Kiev è destinataria di condizioni scritte altrove, l’Europa viene trattata come spazio di implementazione e finanziamento. Non è una conferenza multilaterale sotto egida ONU o OSCE: è un pacchetto formulato tra due grandi potenze e offerto agli altri sotto forma di realtà da prendere o lasciare.
Questa dinamica collide con l’acquis politico e giuridico dell’Unione. Dal 2022 in avanti, il Consiglio europeo ha fissato una linea ripetuta in tutte le sue conclusioni: pieno sostegno alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina entro i confini internazionalmente riconosciuti; nessuna legittimazione delle annessioni russe; prospettiva “irreversibile” di adesione di Kiev all’UE; riconoscimento politico della sua traiettoria euro-atlantica. Non si tratta di formule retoriche: discendono dall’articolo 2 TUE (stato di diritto, rispetto del diritto internazionale) e dall’articolo 21 TUE, che impegna l’Unione a orientare la propria azione esterna alla Carta ONU e ai principi del diritto internazionale.
Un piano che ratifica conquiste territoriali ottenute con l’aggressione, condiziona la sicurezza di uno Stato europeo a una intesa bilaterale tra Stati Uniti e Russia e svuota la possibilità di perseguire i responsabili dei crimini commessi chiede all’Unione non di “fare un compromesso”, ma di smentire il proprio ordinamento. Accettarlo significa trasformare i principi in variabili negoziali, disponibili a essere sospesi quando il costo politico o economico diventa troppo alto.
Dentro questo quadro si aprono, in sostanza, tre scenari. Nel primo, l’UE si adegua al piano, magari ottenendo qualche aggiustamento lessicale o tecnico che consenta di presentare la scelta come “pace imperfetta ma necessaria”. La Russia consolida e legittima il controllo sui territori occupati; l’Ucraina entra in una lunga fase di sovranità compressa, con capacità militare ridotta e libertà strategica limitata; l’Unione assume il ruolo di principale pagatore della ricostruzione e di garante di fatto di un nuovo status quo negoziato altrove. Nel brevissimo periodo, la violenza su larga scala diminuisce; nel medio-lungo periodo si produce un precedente strutturale: in Europa è possibile cambiare i confini con la forza se si è abbastanza forti e pazienti da arrivare, alla fine, a una firma.
Nel secondo scenario, il piano produce una frattura interna all’UE. Una parte degli Stati membri, travolta da fatica bellica, timori economici e paura dell’escalation, propende per accettarne la sostanza; un’altra parte – in particolare i paesi più esposti a Est – lo considera una capitolazione e insiste per mantenerne la linea di rigore. Il risultato è l’erosione del regime sanzionatorio attraverso eccezioni e deroghe, l’assistenza militare che prosegue ma senza un salto di qualità coordinato, margini crescenti per la Russia di giocare sulle divisioni e sulla normalizzazione graduale di legami economici e politici. È lo scenario ideale per il Cremlino: un’Unione che continua a dichiararsi al fianco di Kiev, ma nei fatti non riesce più a garantire né pressione economica sufficiente né supporto militare all’altezza della sfida.
Il terzo scenario è l’unico coerente con l’interesse europeo di lungo periodo: rifiutare la logica di resa del piano, mantenere e aggiornare il regime di sanzioni, aumentare in modo strutturale l’assistenza militare e assumere iniziativa politica autonoma. Rifiutare non vuol dire ignorare, ma dichiarare in modo pubblico e argomentato che una soluzione di pace sostenuta dall’Unione deve rispettare tre criteri minimi: nessun riconoscimento giuridico delle annessioni; un percorso vincolante verso l’adesione dell’Ucraina all’UE; pieno sostegno agli strumenti di giustizia internazionale, compresi eventuali meccanismi ad hoc per il crimine di aggressione.
Mantenere e rendere coerente il regime di sanzioni significa blindare, nel diritto dell’Unione, le misure chiave su energia, finanza e tecnologie dual use, limitare la discrezionalità degli allentamenti unilaterali e collegare qualsiasi discussione su alleggerimenti a condizioni verificabili sul terreno: ritiro delle truppe, restituzione di territori, cooperazione con le indagini sui crimini internazionali. L’idea che le sanzioni “non funzionino” perché non producono risultati immediati va rovesciata: sono uno strumento di pressione di medio-lungo periodo e una dichiarazione di non normalizzazione, senza la quale il segnale ai futuri aggressori sarebbe che l’uso della forza ha un costo solo temporaneo.
Aumentare il sostegno militare non vuol dire militarizzare la politica estera europea, ma adeguare gli strumenti alla realtà della minaccia. Per l’UE questo comporta mettere a bilancio, a livello europeo e non solo nazionale, programmi pluriennali per munizioni, difesa aerea, capacità a lungo raggio e logistica; accelerare addestramento e interoperabilità delle forze ucraine; valutare, nel quadro del diritto internazionale, forme di presenza militare europea sul terreno in ruoli non combattenti ma ad alto valore deterrente, come la protezione di infrastrutture critiche o missioni di training avanzate. Il messaggio deve essere chiaro: il ritiro o l’oscillazione della volontà americana non indeboliscono automaticamente la resilienza del fronte europeo.
Assumere iniziativa politica significa anche costruire una cornice alternativa al piano a due. L’Ucraina ha già articolato un proprio “Victory Plan” basato su ritiro russo, responsabilità e integrazione euro-atlantica; l’Unione può farne il proprio riferimento, europeizzandolo. Ciò implica che ogni discussione su cessate-il-fuoco e garanzie di sicurezza venga riportata in un contesto multilaterale, dove Kiev sia soggetto pieno e l’Europa non sia solo un facilitatore logistico ma un co-garante con voce propria.
In questa prospettiva, rifiutare il piano in 28 punti, mantenere le sanzioni e aumentare le forniture militari all’Ucraina non è un gesto “pro-ucraino” nel senso sentimentale del termine: è un atto di autodifesa dell’Unione. Difende il principio secondo cui i confini in Europa non si ridisegnano a colpi di carri armati; evita di normalizzare una logica in cui l’ordine di sicurezza del continente viene definito a due e gli europei accettano di limitarsi a ratificare; preserva la credibilità dell’UE come potenza normativa, cioè come soggetto che ancora crede alla forza delle regole.
Se l’Unione accetta la sostanza di questo piano, comunica a partner, rivali e cittadini che i propri impegni su stato di diritto, integrità territoriale e giustizia internazionale sono negoziabili ogni volta che lo shock esterno supera una certa soglia. Se, al contrario, lo respinge, mantiene un regime serrato di sanzioni e rilancia l’assistenza militare a Kiev dentro una cornice politica chiara, la difesa dell’Ucraina diventa in modo esplicito difesa dell’ordinamento europeo. La scelta non è tra pace e guerra: è tra una tregua fragile costruita sulla legittimazione della forza e una pace possibile fondata sulla tenuta delle regole che hanno garantito, finora, l’esistenza stessa dell’Unione.
- 𝐒𝐞𝐯𝐞𝐫𝐢𝐧 𝐀𝐳𝐢𝐦𝐮𝐭