Landini, la cortigiana e la politica delle parole
𝐔𝐧 𝐚𝐠𝐠𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐠𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐫𝐞
È bastata una parola - “cortigiana” - per incendiare il lessico e spegnere la discussione. Maurizio Landini, in diretta a diMartedì, ha detto che Giorgia Meloni “si è limitata a fare la cortigiana di Trump”. Ha voluto dire “alla corte di Trump”, ma ha detto “cortigiana”. In italiano la sfumatura è un abisso. E quell’abisso è diventato notizia.
Meloni ha reagito come prevedibile: definizione alla mano, post social, tono ferito. “Cortigiana” non è neutra – né oggi né ieri. Evoca la donna che serve, non quella che governa. Landini ha precisato: intendevo la corte, non la camera da letto. Ma la parola era già uscita, con tutta la scia semantica che porta addosso. Nella politica contemporanea, dove il linguaggio è marketing e il conflitto è immagine, una svista lessicale pesa più di un errore di linea.
Il risultato: due giorni di dibattito su cosa significhi davvero “cortigiana”. Accademie, linguisti, tweet, talk show. Tutti intenti a scandagliare il dizionario, nessuno a parlare del perché Meloni fosse al vertice con Trump o cosa si sia detto sul piano per Gaza. È l’effetto boomerang della politica mediatica: quando la forma collassa, la sostanza evapora.
Landini, che voleva accusare la premier di subalternità geopolitica, ha finito per regalarle un frame perfetto: donna insultata da un uomo di potere. Meloni, che vive di contrapposizioni, ha colto l’occasione per trasformare la replica in autodifesa morale. Tutti vincono nello scontro apparente; tutti perdono nel merito. La parola “cortigiana” funziona come detonatore e come scudo: apre il fuoco e devia il bersaglio.
C’è un cortocircuito culturale che vale più della cronaca. Da un lato, la sinistra sindacale che non si accorge di parlare ancora in un codice maschile ottocentesco, convinta che l’ironia salvi tutto. Dall’altro, la destra identitaria che rivendica il rispetto delle donne solo quando coincide con la propria leader. Due facce della stessa impotenza linguistica: parole che pretendono di ferire ma rivelano solo la fatica di pensare.
Il punto non è più Landini né Meloni. È il linguaggio come campo di battaglia, la parola che sostituisce il fatto. Da Kiev a Gaza il mondo misura il sangue; noi misuriamo il tono.
In fondo “cortigiana” è la metafora perfetta per questa politica: inchini di facciata, devozioni mediatiche, potere come spettacolo. Chi insulta sbaglia, chi reagisce recita, e il pubblico applaude convinto di aver capito. È la democrazia al tempo del sinonimo virale: basta un aggettivo per cambiare argomento, basta un’eco per coprire il rumore di tutto il resto.
— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚