Ladro di stelle: Hölderlin e il poeta come titano - di Livia Di Vona

Ladro di stelle: Hölderlin e il poeta come titano - di Livia Di Vona

(Edizioni Solfanelli, 2025) Presentazione di Giovanni Sessa 
[Livia Di Vona, Ladro di stelle. Hölderlin e il poeta come Titano. Edizioni Solfanelli, 2025, pp. 144, € 12,00 — Scheda editore: https://www.edizionisolfanelli.it/ladrodistelle.htm]

La tesi è netta: Hölderlin rientra in officina. Non un santuario, ma un banco di lavoro: nominazione, ritmo, registro. Livia Di Vona tiene la barra sul funzionamento dei testi e mostra perché, nell’Occidente esperio, il linguaggio resta insieme dono e rischio. Cornice heideggeriana, ma sorvegliata: phýsis come campo di forze; parola come organo, non come arredamento.

Si apre da qui: «il più pericoloso dei beni, il linguaggio». La citazione da “Im Walde” vale come regola di mestiere. Nominare apre il mondo ma può anche forzarlo. L’autrice allinea esempi corti e utili: il patto con Urania, l’eco dell’Enūma eliš (il cosmo comincia quando i cieli ricevono il nome), la distinzione tra coalescenza e coincidenza del nome con la cosa, la memoria di un alfabeto «sceso dalle stelle». Non è erudizione: è metodo. Si legge come la parola fa cose.

La festa è il secondo snodo. Negli inni la pienezza antica muta in memoria e gratitudine. Resta la spina dorsale: «Il pane è frutto della terra ma benedetto dalla luce». Resta l’annuncio: «viene l’agitatore di fiaccole». Con Guardini, Cristo non chiude la scena: fa da sentinella nella notte moderna. Con Napoleone, l’eroe civile entra nel quadro senza idolatrie. La domanda non è teologica, è scenica: cosa fa la festa nel verso? Risposta: trattiene una radice creaturale e impedisce alla lingua di farsi proclama. In questa linea la memoria non è nostalgia: è Andenken, gesto che custodisce e rilancia: una pratica di gratitudine che tiene misura nel presente.

In Hölderlin, prima del tragico viene il dionisiaco. Non lo stato di ebbrezza nietzscheano – che pure col poeta fece i conti tutta la vita, e non sempre a suo profitto – ma la spinta che scambia gli opposti (notte/giorno, vita/morte) e rimette in moto natura e gesto umano: la festa che incanala, il nome che dà forma, la memoria che trattiene. Il set minimo perché l’eccesso trovi forma senza deragliare. Per Sessa/Di Vona, con Guardini, «il piacere di vivere» può farsi «gioia di morire»: non resa, ma sovrabbondanza che eccede l’io. Qui si vede il mestiere della lingua: nominare non chiude, misura; il coro non abbellisce, sostiene il passaggio. La cesura – il «momento centrale» – è il taglio che sospende il verso e apre lo spazio di verità; non ornamento, ma regia del senso. “La morte di Empedocle” chiarisce il rischio: quando il poeta s’innalza a dio, il colloquio col numinoso si spezza e la parola si fa difettosa. L’innesto con “La torre” di Hofmannsthal serve a leggere il presente: Ordnung moderna senza legittimità alta, potere che orchestra macerie.

Se prendiamo sul serio l’idea che Hölderlin pensi per luoghi, il Reno e l’Ister non sono paesaggio ma fiumi-misura: il primo dà ritmo al versante nordico del civile, il secondo riapre il varco mediterraneo del mito. Non decorazione, ma coordinate di lavoro che tengono insieme tempo e luogo. In tal senso la lettera del 4 dicembre 1801, che Friedrich Hölderlin invia all’amico e poeta Casimir Ulrich Böhlendorff, è la bussola del discorso. Qui Hölderlin distingue senza equivoci: ai Greci la prossimità degli dèi e la misura; ai moderni (noi) non l’imitazione, ma una chiarezza conquistata che lavora nella distanza. Tradotto in pratica: niente “ritorni” rituali, bensì luce tenuta in mano nella lingua che abitiamo. Di Vona usa questa lettera per regolare il tono: citazioni brevi come attrezzi – «Amore mi richiama» come invito all’opera; «Noi siamo un segno non significante» come misura del limite. Grecia, dunque, non è un altare da restaurare: è un metro con cui tarare il nulla presente.

Nella “Presentazione”, Giovanni Sessa invoca un «sapere poetico-pensante» che dis-vela, in colloquio con l’alétheia, il contatto con il «fondo abissale, dionisiaco e divino» (Colli). Il passo è alto e necessario. Però, Heidegger, al quale appartiene il concetto di “pensiero-poetante”, sposta l’accento sul “come”: non immersione estatica nel fondo, ma disciplina dell’ascolto. La parola non trasporta concetti già dati: li fa accadere; misura, trattiene l’aperto senza sfondarlo. In Hölderlin i due vettori non si escludono: l’energia dionisiaca che svela e rimette in moto gli opposti chiede la regola del nome; la verità che si svela pretende una lingua che custodisca e non consumi. Ne nasce – come si diceva sopra – un laboratorio, non un santuario: tensione tra varco e limite, tra invocazione e nominazione. È qui che il verso pensa – e rischia: perché il linguaggio resta «il più pericoloso dei beni», capace di grazia e di caduta, se non resta fedele al proprio mestiere.

Il passaggio finale del poeta verso la frammentarietà è naturale. L’ultimo Hölderlin non è rottame: è forma adeguata a un mondo che ha perso un centro condiviso. Con Adorno sulla lirica tarda, Di Vona precisa il punto: i Nomi (divinità, luoghi, stagioni) tornano fulcro di presenza e generano corrispondenze; i concetti restano a distanza di sicurezza per non chiudere l’aperto che il verso mette in opera. In questa chiave, Scardanelli e le “date oblique” non sono bizzarrie: sottraggono il testo al puro calendario e lo collocano in un «non ancora» vigilato – non enigmi da bacheca, ma esercizi di custodia che evitano tanto gli stereotipi del mito che il silenzio rassegnato.

— Miro Renzaglia