PIER PAOLO PASOLINI. Il reazionario rosso
Miro Renzaglia
𝐄𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥 𝐯𝐨𝐥𝐮𝐦𝐞: "𝐋𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐚 𝐚 𝐄𝐳𝐫𝐚 Pound. 𝐄 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐞 𝐦𝐚𝐬𝐜𝐡𝐞𝐫𝐞 𝐝'𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞" - 𝐝𝐢 𝐌𝐞𝐦𝐦𝐞 𝐃𝐞𝐬𝐢𝐦𝐨
𝐒𝐜𝐡𝐞𝐝𝐚 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨
𝐓𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨: La parola a Ezra Pound e altre maschere d'autore
𝐀𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞: Miro Renzaglia
𝐄𝐝𝐢𝐭𝐨𝐫𝐞: Passaggio al Bosco
𝐂𝐨𝐥𝐥𝐚𝐧𝐚: Bastian Contrari
𝐀𝐧𝐧𝐨: 2020
𝐏𝐚𝐠𝐢𝐧𝐞: 258
𝐈𝐒𝐁𝐍: 9788885574601 (ISBN-10: 8885574602)
𝐏𝐫𝐞𝐳𝐳𝐨: € 13,50
𝐀𝐜𝐪𝐮𝐢𝐬𝐭𝐚: https://www.passaggioalbosco.it/la-parola-a-ezra-pound/
Per essere reazionario, Pier Paolo Pasolini era reazionario. Basti pensare al suo testamento bio-poetico, quel “Saluto e augurio” che rivolge a un giovane fascista, definendolo “morto” e, però, affidandogli, fra le altre missioni che gli affida, quella di amare i poveri, sì, ma purché restino poveri: «Ama la loro voglia di vivere soli / nel loro mondo, tra prati e palazzi / dove non arrivi la parola / del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; / ama il loro dialetto inventato ogni mattina, / per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria».
Chiedere proprio a un giovane fascista di fare in modo che questa “allegria” incosciente e “diversa” fosse “difesa e conservata” era anche una forma di ipocrisia un po’ vigliacca, esplicitamente dichiarata in finale di testo: «Prenditi tu, / sulle spalle, questo fardello. / Io non posso: nessuno ne capirebbe / lo scandalo».
Insomma, un modo neanche tanto allegorico per dire: c’è un lavoro sporco da fare, impedire che i poveri, per andare incontro a una evoluzione dal loro stato di bisogno, siano inghiottiti dall’omologazione ma io non me lo posso permettere.
Viene da pensare: e perché mai avrebbe dovuto essere proprio un giovane fascista a compiere questa opera salvifica del suo (di Pasolini) idilliaco mondo pre-moderno, sospeso fra le ridenti contrade di Casarsa nel Friuli e le borgate del sottoproletariato romano?
Viene da pensare: e perché mai avrebbe dovuto essere proprio un giovane fascista a compiere questa opera salvifica del suo (di Pasolini) idilliaco mondo pre-moderno, sospeso fra le ridenti contrade di Casarsa nel Friuli e le borgate del sottoproletariato romano? Il vizio di prospettiva critica del poeta è evidente: per lui il Fascismo, secondo i paradigmi della chiesa marxista alla quale nonostante tutto sosteneva appartenere, era l’avamposto della reazione a quel progresso che, sempre lui, detestava. Fosse stato veramente libero dai pregiudizi che diceva aborrire, avrebbe potuto accorgersi facilmente che il momento storico in cui questo Paese è uscito dalla pre-modernità per entrare nella modernità, pur con tutte le sue contraddizioni, pur con tutti i suoi evitabili errori, fu proprio il Ventennio mussoliniano.
E non posso nemmeno pensare, da uomo di profonda cultura qual era, ignorasse che una delle molle propulsive del Fascismo fosse stato quel Futurismo che tutto può essere considerato, tranne che movimento di retroguardia nemico del progresso e con il torcicollo storico.
E quindi? Quindi, semplicemente, aveva sbagliato destinatario della sua missiva. Quel fascista che aveva in mente lui era ed è sconosciuto all’indirizzo. Per quella conservazione e difesa della purezza proletaria che gli stava a cuore, contro qualsiasi insidia della modernità, avrebbe dovuto rivolgersi con più attendibile precisione a qualche suo correligionario marxista. Chessò? A un khmer rosso, per esempio. Quelli che nelle radiose giornate di Phonm Penh, tra il 1975 e il 1979, si davano all'allegria fucilando chiunque portasse gli occhiali, quale incontrovertibile prova di frequentazione dei libri e, quindi, di essere corrotto dall'intelligenza borghese.
Ciononostante i reazionari, qual lui indubbiamente era, difettano nelle soluzioni che propongono ma sono spesso (non tutti) dotati di una certa facoltà di preveggenza.
Ciononostante i reazionari, qual lui indubbiamente era, difettano nelle soluzioni che propongono ma sono spesso (non tutti) dotati di una certa facoltà di preveggenza. Pasolini fu tra i primi ad accorgersi – eravamo intorno alla metà degli anni Settanta – che il corso degli eventi stava prendendo la china che, di rimbalzo in rimbalzo, avrebbe prodotto la radicale trasformazione dei vincoli connettivi della società civile italiana, e non solo italiana.
Anche perché avveduto della scuola francofortese dei vari Benjamin, Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, Löwenthal, declinò tempestivamente, o comunque ne fu tra i primi interpreti italiani, una critica serrata all’incipiente “società del consumo” nei suoi molteplici ingranaggi azzeranti. A cominciare da quel micidiale processo di schiacciamento del desiderio individuale sugli standard dei cicli produttivi del profitto capitalista über alles, fino a determinare una “mutazione antropologica” dell’individuo stesso. E non mancò nemmeno di indicare quale fosse lo strumento principale di cui i nuovi poteri si sarebbero serviti per realizzare lo scopo: la televisione. Converrà rileggere le sue parole:
«Per mezzo della televisione, il centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo, [del] nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa».
Porca miseria: l'analisi fu pronunciata – credo di ricordare – intorno al 1975, anno stesso della sua morte. Eravamo nel bel mezzo di una guerra civile. Le televisioni in Italia erano solo due ed erano entrambe controllate dall’apparato dei partiti. Le emittenti private avrebbero cominciato a trasmettere, e solo in ambito locale, nel 1976. Il Grande Fratello non ci aveva ancora convinti della sua verità, ovvero: che solo apparendo in Tv la realtà diventava realtà, e non era nemmeno stato ipotizzato come format di quel successo che avrebbe poi avuto nei palinsesti planetari. E questo poeta reazionario, narratore, regista di cinema aveva già fotografato, con una messa a fuoco straordinaria, la macchina che ci avrebbe persuasi tutti di vivere nel migliore dei mondi possibili. Nemmeno il Fascismo – sosteneva lui – era riuscito a tanto.
- 𝐌𝐢𝐫𝐨 𝐑𝐞𝐧𝐳𝐚𝐠𝐥𝐢𝐚