Italia, salari reali: produttività o niente

Italia, salari reali: produttività o niente

In Italia il punto non è “stipendi bassi” in astratto: è che i 𝐬𝐚𝐥𝐚𝐫𝐢 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐢 (corretti per l’inflazione) hanno perso 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐫𝐞 𝐝’𝐚𝐪𝐮𝐢𝐬𝐭𝐨 nella 𝐟𝐢𝐚𝐦𝐦𝐚𝐭𝐚 2022–2023 e il recupero 2024–2025 è incompleto.

Qui si innesta il paradosso messo bene a fuoco da Federico Fubini sul Corriere della Sera (𝘓𝘢 𝘥𝘪𝘴𝘤𝘦𝘴𝘢 𝘳𝘦𝘤𝘰𝘳𝘥 𝘥𝘦𝘪 𝘴𝘢𝘭𝘢𝘳𝘪 𝘪𝘯 𝘐𝘵𝘢𝘭𝘪𝘢: 𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘤'𝘦̀ 𝘥𝘪𝘦𝘵𝘳𝘰 𝘭𝘢 𝘤𝘰𝘭𝘭𝘦𝘳𝘢 𝘥𝘦𝘨𝘭𝘪 𝘪𝘵𝘢𝘭𝘪𝘢𝘯𝘪, 6 ottobre 2025): dal minimo del 2020 il 𝐏𝐈𝐋 è cresciuto del 16,6%, ma il potere d’acquisto delle buste paga è sceso (stime BCE −5,8% dalla fine del 2021 alla primavera 2025; OCSE −7,5% sul 2021–2024). Risulta particolarmente pesante per i redditi bassi, perché cibo ed energia pesano di più nel loro carrello. In altre parole: la crescita c’è stata, ma non è arrivata 𝐢𝐧 𝐛𝐮𝐬𝐭𝐚.

Le cause non sono un mistero e, soprattutto, non sono un alibi. La produttività ristagna: troppa micro-impresa sottocapitalizzata, processi lenti, scarsa adozione di 𝐭𝐞𝐜𝐧𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐞 e organizzazione moderna. Senza più 𝐯𝐚𝐥𝐨𝐫𝐞 𝐚𝐠𝐠𝐢𝐮𝐧𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐚𝐝𝐝𝐞𝐭𝐭𝐨, i salari reali non crescono in modo stabile. Inflazione alta e rinnovi lenti hanno poi trasferito con ritardo gli adeguamenti 2024–2025, lasciando un buco di potere d’acquisto. Infine, il 𝐜𝐮𝐧𝐞𝐨 𝐟𝐢𝐬𝐜𝐚𝐥𝐞 resta tra i più alti dell’OCSE: una fetta larga del costo del lavoro non diventa netto, con effetti sulla domanda di lavoro qualificato e sulla percezione in busta.

C’è anche un tema di distribuzione dei margini. Il quadro richiamato da Fubini segnala utili robusti in finanza e nei settori regolati: segno che una parte della ripresa è stata intercettata dove la concorrenza è debole o la regolazione concede spazi di rendita. Non si tratta di punire i profitti, ma di distinguere tra profitto che remunera rischio e innovazione e 𝐫𝐞𝐧𝐝𝐢𝐭𝐚 𝐝𝐢 𝐩𝐨𝐬𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞. Lì servono tariffe collegate a produttività e investimenti effettivi, 𝐠𝐚𝐫𝐞 𝐯𝐞𝐫𝐞, 𝐜𝐥𝐚𝐰𝐛𝐚𝐜𝐤 degli extra-margini non giustificati e 𝐚𝐧𝐭𝐢𝐭𝐫𝐮𝐬𝐭 con i denti quando il cliente è “captive”.

La via d’uscita è concreta. Produttività, non sussidi a pioggia: 𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐭𝐢𝐯𝐢 𝐚𝐠𝐥𝐢 𝐢𝐧𝐯𝐞𝐬𝐭𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 condizionati a risultati (valore aggiunto per addetto, export, brevetti, efficienza energetica) con 𝐬𝐮𝐧𝐬𝐞𝐭 𝐜𝐥𝐚𝐮𝐬𝐞 chiare: 𝐩𝐢𝐥𝐨𝐭𝐚 → 𝐦𝐢𝐬𝐮𝐫𝐚 → 𝐬𝐜𝐚𝐥𝐚 se funziona, altrimenti chiudi. Lo Stato fa l’architetto di filiere (energia pulita, semiconduttori, cloud, biomed) e di standard, non il padrone delle aziende. La leva c’è: 𝐏𝐍𝐑𝐑 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐝𝐮𝐨, fondi UE, credito “paziente” vincolato a 𝐊𝐏𝐈 (Indicatore Chiave di Prestazione).

In parallelo va alleggerito stabilmente il 𝐜𝐮𝐧𝐞𝐨 sul lavoro medio-basso, spostando pressione da lavoro e impresa produttiva a rendite ed esternalità. La 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 deve correre: tempi certi, clausole anti-shock, più premi di produttività. Se si introduce un 𝐦𝐢𝐧𝐢𝐦𝐨 𝐥𝐞𝐠𝐚𝐥𝐞, che sia 𝐫𝐞𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐢𝐜𝐮𝐫𝐞𝐳𝐳𝐚 sotto i minimi contrattuali solidi, con criteri oggettivi d’aggiornamento.

𝐌𝐞𝐫𝐜𝐚𝐭𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐧𝐝𝐢𝐛𝐢𝐥𝐢 e 𝐬𝐜𝐚𝐥𝐚 𝐝’𝐢𝐦𝐩𝐫𝐞𝐬𝐚 completano il quadro: più concorrenza nei servizi protetti e imprese più grandi significano margini meno drogati e salari migliori dove si crea valore. Le 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐞𝐭𝐞𝐧𝐳𝐞 chiudono il cerchio: 𝐈𝐓𝐒 e università professionalizzanti più forti, 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐭𝐭𝐢𝐯𝐞 misurate sugli esiti, nidi e servizi che liberano offerta qualificata e aumentano la partecipazione femminile.

I numeri e l’esperienza di questi anni dicono la stessa cosa: 𝐬𝐚𝐥𝐚𝐫𝐢 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐢 giù, crescita intercettata altrove. La risposta non è la nostalgia: è la capacità. 𝐌𝐞𝐧𝐨 𝐜𝐮𝐧𝐞𝐨, 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐢 𝐯𝐞𝐥𝐨𝐜𝐢, 𝐫𝐞𝐠𝐨𝐥𝐞 𝐩𝐫𝐨-𝐜𝐨𝐧𝐜𝐨𝐫𝐫𝐞𝐧𝐳𝐚 e regolazione che premia efficienza e investimenti.

— 𝐒𝐚𝐥𝐝𝐨 𝐏𝐫𝐢𝐦𝐚𝐫𝐢𝐨