Georgia: la piazza contro la svolta anti europea

Georgia: la piazza contro la svolta anti europea

Le proteste degli ultimi giorni in Georgia non sono un lampo estivo. Vengono da lontano e si spiegano con tre fattori: una legge pensata per imbrigliare la società civile, un clima elettorale carico di sospetti e una progressiva torsione del potere esecutivo verso modelli illiberali. Sullo sfondo c’è una contraddizione giuridica e politica: la Costituzione, all’𝐀𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨 𝟕𝟖, impone alle istituzioni di adottare tutte le misure necessarie per l’integrazione del Paese nell’Unione Europea. 𝐋𝐚 “𝐫𝐨𝐭𝐭𝐚 𝐞𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞𝐚” 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐮𝐧’𝐨𝐩𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞: 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐯𝐢𝐧𝐜𝐨𝐥𝐨.

𝐏𝐫𝐢𝐦𝐨 𝐞𝐥𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨. La legge sugli “agenti stranieri” obbliga ONG e media con finanziamenti esteri a iscriversi in registri speciali e a sottostare a requisiti gravosi. Il punto non è la trasparenza in sé, ma l’effetto: marchiare come “esterni” i principali anticorpi democratici. In un Paese con ecosistema mediatico fragile, lo squilibrio cresce rapidamente: meno spazi indipendenti, più comunicazione governativa, più paura di esporsi. È la grammatica standard delle democrazie ibride. La nuova legge entrerà in vigore il 1° giugno 2025. Le novità includono pene penali più pesanti, requisiti di registrazione più rigorosi e definizioni più ampie di cosa costituisce “attività politica / sotto controllo esterno”.

𝐒𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨 𝐞𝐥𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨. Le ultime consultazioni sono finite in un mare di contestazioni. Non serve stabilire chi abbia “ragione” per capire l’impatto: quando la fiducia nel processo elettorale vacilla, la piazza diventa il luogo dove si ridefinisce il patto politico. La risposta delle autorità — idranti, arresti mirati, narrativa del “complotto” — ha irrigidito il fronte. Chi era titubante ha letto la stretta come un’anticipazione di ciò che verrà.

𝐓𝐞𝐫𝐳𝐨 𝐞𝐥𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨. La politica estera è usata come scudo interno. Il governo parla di ingerenze occidentali, l’opposizione rivendica il diritto di chiedere standard europei. La disputa non è astratta: riguarda tribunali, libertà di informazione, concorrenza economica, protezione dei diritti. In altre parole, riguarda il tipo di Stato che i georgiani avranno tra cinque anni.

Qui entra in gioco l’𝐀𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨 𝟕𝟖. 𝐒𝐞 𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐠𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞𝐮𝐫𝐨𝐩𝐞𝐚 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐨𝐛𝐢𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐜𝐨𝐬𝐭𝐢𝐭𝐮𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐞, allora le politiche che restringono lo spazio civico e allontanano il Paese dai criteri europei non sono solo scelte politiche controverse: sono scelte che cozzano con l’indirizzo supremo della Carta. La piazza — variegata e spesso spontanea — legge questa frattura e si muove di conseguenza: non per “importare” un’agenda dall’esterno, ma per chiedere coerenza interna.

Gli esiti possibili sono tre. 𝐂𝐨𝐧𝐬𝐨𝐥𝐢𝐝𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐢𝐥𝐥𝐢𝐛𝐞𝐫𝐚𝐥𝐞: la legge passa, le ONG si indeboliscono, i media si uniformano, l’UE congela dossier e strumenti finanziari diventano condizionali. 𝐑𝐚𝐝𝐝𝐫𝐢𝐳𝐳𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐨𝐭𝐭𝐚: ritiro o riscrittura profonda della legge, garanzie sul processo elettorale, riapertura di canali politici con Bruxelles. 𝐒𝐭𝐚𝐥𝐥𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐥𝐮𝐧𝐠𝐚𝐭𝐨: nessuna correzione sostanziale, conflitto a bassa intensità, erosione lenta della fiducia e capitale umano che migra.

La scelta non dipende solo dal governo. Dipende anche dalla capacità della società civile di restare non violenta, ampia e organizzata; dalla compattezza dell’opposizione, finora intermittente; e dalla credibilità dell’Europa nel legare principi e strumenti: condizionalità chiare, sanzioni mirate quando servono, ma anche percorsi concreti di avvicinamento quando si registrano passi avanti reali.

La protesta georgiana non è antirussa per sport né filoeuropea per moda. È un negoziato, in piazza, su che cosa significhi essere uno Stato europeo ai margini dell’Europa. Se l’Articolo 78 è più di una riga di testo, allora l’esito naturale è un allineamento progressivo agli standard europei. Se resta lettera morta, la Georgia imboccherà la strada delle ambiguità: elezioni regolari sulla carta, diritti compressi nella pratica, e un futuro geopolitico deciso non a Tbilisi ma altrove.

  • 𝐒𝐞𝐯𝐞𝐫𝐢𝐧 𝐀𝐳𝐢𝐦𝐮𝐭