George Orwell, l'arte di uno scrittore politico - di Luca Fumagalli
𝗦𝗰𝗵𝗲𝗱𝗮 𝗹𝗶𝗯𝗿𝗼
Titolo: George Orwell. L’arte di uno scrittore politico
Autore: Luca Fumagalli
Prefazione: Paolo Gulisano
Editore: Ares
ISBN: 9788892986831
Anno: 2025
Pagine: 208
Prezzo: € 15,00
Acquista: https://www.edizioniares.it/prodotto/george-orwell/
Orwell è uno scrittore politico, ma la politica non è il suo idolo, è il suo attrezzo. Luca Fumagalli lo segue capitolo dopo capitolo dimostrando che, dietro la militanza che potremmo definire social-democratica, ci sono altre fedeltà: la verità dei fatti, il buon senso dell’uomo comune, la normalità delle piccole abitudini, l’ostinazione a chiamare le cose col loro nome.
Il libro si apre con la prefazione di Paolo Gulisano che estende Oceania oltre i limiti del crollo dei novecenteschi totalitarismi dichiarati (nazismo e stalinismo per intenderci) ma sopravvive, imbellettato dal prefisso "anti" che ne falsifica le sembianze, nel “pensiero unico” (e globale) contemporaneo. Quello, per dirlo con lui, dove: «non si lascia spazio né parola o significatività a chi non si adegua alla vulgata dominante, a questo dettame apparentemente buono, umanitario e tollerante, in realtà profondamente intransigente». Ne conviene lo stesso Fumagalli che nella sua introduzione, compendia il prefatore citando Ugo Ronfani: «l’insieme della società globale continua a configurare altre spinte totalitarie, rapporti di violenza, forme neocolonialiste, disuguaglianze, squilibri, tensioni». Da qui, l'attualità di Orwell e dei suoi due imprescindibili: "La fattoria degli animali" e "1984". Da qui, però e anche, il rischio di fare dell'autore un profeta inascoltato e dei suoi libri vangeli del controcorrente. Non è esattamente così e Fumagalli aggira l’imboscata apologetica scegliendo una strada che riporta l'Autore al suo mestiere: uno scrittore che costruisce uno stile, sbaglia, corregge, torna sui testi e, a un certo punto, decide che ogni riga deve servire a fermare, sì, il totem totalitario ma senza issare bandiere di "lotta e vittoria".
L’immagine che ne esce è quella di un autore politicamente schierato, ma allergico ai catechismi. Un «socialista asociale», come lo definisce Guido Bulla, che la politica la pratica per salvare cose che con i comizi c’entrano poco: una tazza di tè, un giardino, un libro letto in pace.
Il primo blocco è biografico e serve a fissare il personaggio. Fumagalli passa in rassegna la selva di biografie, le censure della vedova Sonia, le operazioni di canonizzazione che Orwell aveva espressamente chiesto di evitare. Da lì in avanti, sceglie una linea sobria: racconta Eton, la Birmania, il sottoproletariato di Parigi e Londra, i minatori del Nord, la Spagna, la BBC, l’isola di Jura, senza romanzarsi addosso. Perché la mossa interessante è un’altra: leggere queste tappe come tentativi (falliti) di “pagare un debito”. Il ragazzo formato nell’imperialismo e nel classismo inglese scende tra vagabondi, lavapiatti, minatori, poi si arruola nelle milizie spagnole, come se bastasse cambiare compagnia per cancellare il proprio passato di «sbirro imperiale». Non funziona: i poveri restano anche estranei, la working class non si lascia adottare, la rivoluzione è un groviglio di fazioni che si azzannano.
Qui si capisce anche che cosa significhi davvero, nel libro, l’espressione «arte di uno scrittore politico»: non la conversione di un santo laico, ma il lavoro ostinato di un uomo che, proprio perché non riesce mai a sentirsi davvero dalla parte giusta, impara a diffidare di ogni verità in blocco e a trattare la politica come materia da raccontare, non da predicare.
Il secondo grande snodo del volume è il laboratorio della vocazione. Burma, Parigi, Londra non sono solo sfondi: sono i luoghi in cui Orwell scopre che la scrittura può fare qualcosa che né la militanza né la colpa riescono a fare da sole. Può tenere insieme la durezza dei fatti e la necessità di montarli, selezionarli, deformarli quel tanto che basta per renderli leggibili.
Fumagalli insiste su questo punto: i reportage orwelliani non sono stenografia del reale. "Down and Out in Paris and London", "The Road to Wigan Pier" e poi "Homage to Catalonia" non registrano semplicemente la povertà, il carbone, le trincee. Tagliano, cucinano, scelgono le inquadrature. Il patto che viene proposto al lettore è diverso da quello del giornalismo: ti racconto la verità, ma ti avviso che sto usando gli strumenti del romanzo.
Nel momento in cui buona parte della critica – e buona parte dei meme – hanno trasformato Orwell nel testimonial dell’“oggettività neutra”, Fumagalli rimette al centro la responsabilità dello sguardo: dire la verità non significa fare finta di non avere un punto di vista. Significa dichiararlo, lavorarci sopra, limare fino a quando stile e onestà non vanno nella stessa direzione.
La parte più sorprendente del libro sta nel recupero dei romanzi minori: "La figlia del reverendo", "Fiorirà l’aspidistra", "Una boccata d’aria". Di solito stanno sullo sfondo, oscurati dal binomio "Animal Farm–1984". Qui diventano invece la matrice di tutto il resto. Fumagalli li legge come una trilogia delle ribellioni che non ce la fanno. Dorothy scappa dalla parrocchia e ritorna alla parrocchia, Gordon sfida il dio denaro e finisce per accettare un compromesso col suo stesso rancore, Bowling cerca nel paese d’infanzia un “prima” incontaminato e trova uno stagno trasformato in discarica e una bomba sganciata per errore. Ogni fuga si chiude in un vicolo cieco. Quando Fumagalli collega questi perdenti agli eroi mutilati di "1984", la linea si vede benissimo: Winston, in fondo, è solo il punto in cui il sistema ha capito come stroncare la ribellione prima ancora che possa diventare storia.
Il cuore prevedibile del volume sono i due capolavori, ma l’angolo scelto è meno rituale del solito. "La fattoria degli animali" non è ridotta a satira del comunismo sovietico e basta. Viene letta come il racconto di un meccanismo: la rivoluzione che divora i suoi figli non perché «tutti i maiali sono cattivi», ma perché, quando il potere si concentra, la tentazione di riscrivere il passato è più forte di qualsiasi programma per il futuro.
Fumagalli sottolinea un punto spesso trascurato: nel romanzo non c’è un “buon Trotsky” da rimpiangere; anche Palladineve ha la sua parte di colpa. Il bersaglio non è una singola figura storica, è la struttura che spinge chi comanda a trasformare la verità in strumento di governo. Il libro insiste sul fatto che "Animal Farm" non è un addio al socialismo, ma un atto d’accusa contro la sua degenerazione in apparato.
Su "1984" la scommessa di Fumagalli è ancora più netta: togliere il romanzo dalle mani di chi lo usa come volantino anti-Stato e rimetterlo nella sua dimensione originale di distopia “tendenziale”. Qui bisogna intendersi bene, perché a prima vista la critica allo Stato di Orwell sembra molto vicina a quella che Nietzsche rivolge al «più freddo di tutti i freddi mostri». Da una parte c’è il grande Stato moderno di Nietzsche, idolo che simula di essere il popolo mentre in realtà ne divora l’energia; dall’altra c’è Oceania, che è l’istituzionalizzazione definitiva di quello stesso mostro, ripulito da ogni residuo di verità e di memoria. Nietzsche smaschera il trucco: lo Stato promette senso dopo la morte di Dio, chiede fedeltà e restituisce solo un “noi” fittizio costruito contro ogni singolarità forte. Orwell mostra che cosa succede quando quel dispositivo si salda con la tecnica, con il controllo del linguaggio, con la manipolazione sistematica del passato. La differenza è che Orwell difende la decenza minima – il cortile, l’amore imperfetto, le parole non truccate - e Nietzsche invece aspira alle vette all'oltreuomo. Nessuno dei due odia lo Stato nelle sue funzioni basiche: entrambi lo detestano quando straripa in apparato superburocratico che pretende di controllare e dirigere tutto. Orwell dice che la morale di "1984" è semplice – non lasciate che succeda. Da qui l’idea forte di Fumagalli: Winston può anche essere sconfitto, ma il romanzo non è il testamento disperato di un autore ormai nichilista. È il tentativo di tenere viva una coscienza, sapendo di parlare a lettori che, a differenza di Winston, hanno ancora qualche margine di scelta.
La conclusione del saggio rimette insieme i fili: Fumagalli sostiene l’idea che il compito di chi scrive, e in generale di chi pensa, non sia offrire sistemi perfetti, ma difendere la realtà concreta dagli assalti delle astrazioni. Si può discutere il quadro valoriale implicito – l’umanesimo cristiano che fa capolino in più di una pagina, la fiducia nel “buon senso” come argine ultimo – ma il merito del volume sta proprio qui: obbliga il lettore a prendere posizione su questo modo di leggere Orwell, sul suo uso politico e sul quadro valoriale implicito che il libro propone. Orwell non è un autore accomodante: è duro, contraddittorio, a tratti sgradevole. Fumagalli non lo nasconde del tutto, anche se ogni tanto gli lima gli spigoli. E, soprattutto, invita a fare quello che Orwell chiedeva sempre: verificare le parole con i fatti, e le suggestioni con la realtà. Non è poco, in un’epoca in cui la tentazione di rinchiudersi nella propria bolla di verità è almeno insidiosa quanto qualsiasi Ministero dell’Amore.
— 𝗠𝗶𝗿𝗼 𝗥𝗲𝗻𝘇𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮