Generazione '78 - di Francesco Mancinelli

𝗩𝗶𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼, 𝗰𝗿𝗶𝘁𝗶𝗰𝗼 𝗲 𝗶𝗻𝘁𝗿𝗼𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗼 𝗮𝘁𝘁𝗿𝗮𝘃𝗲𝗿𝘀𝗼 𝘂𝗻𝗮 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝗱𝗲𝘀𝘁𝗶𝗻𝗼

Scheda libro
— Autore: Francesco Mancinelli
— Titolo: Generazione ’78
— Editore: Settimo Sigillo
— Anno edizione: 2024
— Pagine: 440
— ISBN: 9788861482630
— Prezzo: € 45,00
Acquista: https://www.libreriaeuropa.it/scheda.asp?id=17448&ricpag=1

«𝗢𝗵! 𝗿𝗮𝗴𝗮𝘇𝘇𝗶 𝘀𝗳𝗼𝗿𝘁𝘂𝗻𝗮𝘁𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗮𝘃𝗲𝘁𝗲 𝘃𝗶𝘀𝘁𝗼 𝗮 𝗽𝗼𝗿𝘁𝗮𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗺𝗮𝗻𝗼 𝘂𝗻𝗮 𝗺𝗲𝗿𝗮𝘃𝗶𝗴𝗹𝗶𝗼𝘀𝗮 𝘃𝗶𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗲𝘀𝗶𝘀𝘁𝗲𝘃𝗮»
𝗣𝗶𝗲𝗿 𝗣𝗮𝗼𝗹𝗼 𝗣𝗮𝘀𝗼𝗹𝗶𝗻𝗶, 𝗟𝗮 𝗽𝗼𝗲𝘀𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘁𝗿𝗮𝗱𝗶𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲

Della Generazione ’78 questo libro tiene insieme il ritmo degli anni di piombo e il battito personale, la liturgia delle canzoni e la ferocia delle cronache, i nomi dei morti e le sigle dei vivi che si associano e si dissociano con ritmi compulsivi. Il nocciolo tematico del libro è semplice da dire ma assai arduo (dev’essere stato) metterlo insieme, magmatico com’è: una comunità di destino che viene restituita per montaggio – traumi, musiche, rituali maggiori e minori, esili, ritorni – finché il collage diventa il corpo testuale che è qui raccolto. Il 1978 è l’anno‑soglia: Acca Larenzia compatta un «noi» ferito. Non che negli anni immediatamente precedenti si fosse scherzato, ma è lì che la grammatica del conflitto cambia. È lì che si comprende appieno che quel «uccidere i fascisti non è reato» non era solo uno slogan ma pratica di sistema. Dai sassi contro le revolverate alle armi pari fu passo, se non obbligato, almeno comprensibile in termini di autodifesa e di "occhio per occhio". Se non giustificabile, almeno conseguente in una logica, perversa quanto si vuole, ma pur sempre logica. Con ricadute inevitabili sulle stagioni dei funerali, delle galere, degli ospedali, degli esili.

Francesco Mancinelli cresce tra provincia e Roma, adolescente con la Federazione addosso «prima del Ginnasio». Il ’78 fa da cardine. Da lì vengono i diari, la topografia dei lutti, la scelta della metrica prima del programma di studi. Poi la musica, che fa da spina alla dorsale della sua vita: scrive, canta, mette in scena — fino al CD allegato al libro — e dà un nome sonoro a una comunità. Con "Contea" lavora un folk che intreccia insorgenze, Vandea e brigantaggi, conquistando anche riconoscimenti pubblici. Quindi l'esilio a Londra: contatti con il CUIB, reti, dossier, bollettini (Orientamenti e Ricerche, Controtempo). Un esilio — quello di Mancinelli e di una parte della Generazione ’78, tra espatri volontari, vincoli processuali e "clima politico ostile" (eufemismo) — che funziona da università: lo scarto geografico aumenta la definizione. Lontano da casa si vedono meglio i contorni — dossier, cassette, reti, contropubblicazioni — e la common law impone serietà sulla parola "prova". Distanza per riaprire le categorie, distinguere analisi da epica, disciplina da vittimismo. È ciò che Ugo Maria Tassinari chiama «sintesi eretica»: tentazioni di sinistra, tradizionalismo romano, terze vie mai pacificate. Nel mixtum compaiono i dischi e le letture che lo formano: De André e Guccini accanto a Morsello; Fellini e Kusturica come scuola di sguardo; i dossier londinesi del CUIB, i bollettini Orientamenti e Ricerche e Controtempo; genealogie di insorgenze, Vandea, brigantaggi. È qui che la «sintesi eretica» prende carne: registri che altrove non si parlano, qui condividono ritmo e lessico.

Propone bene Tassinari, nella prefazione: Mancinelli come «pilota» in un arcipelago irregolare, la musica come timone e vela, la politica retrocessa a «pallido alibi», il viaggio che naviga «meravigliosamente nel nulla», fino all’«Impero Interiore». Si addice all’Autore del libro ma, al netto delle sue qualità musicali, descrive anche molti protagonisti di quella «generazione» schierata male rispetto alle prospettive storiche d'attualità. E buttata via per niente.

La memoria fa da regia. Le ferite – Primavalle, Mantakas, Acca Larenzia, Pistolesi, Cecchin, Giaquinto – non restano fotografie sul tavolo: vengono rimontate con cura di scena, trasformate in racconto condiviso. Non per fare cimitero, ma per fare linguaggio: la memoria seleziona, ordina, dà un tempo ai nomi. In questo montaggio il lutto non è coreografia ma cerniera: salda prima e dopo, fonda un «noi» che non si esaurisce nel rancore. Qui il libro è accurato: mostra come un pantheon non nasca per decreto ma per ripetizione sensata – date, cortei, parole-chiave, persino geografie affettive – finché la topografia del dolore diventa grammatica per musica e parole.

La metapolitica sonora detta il ritmo. Il volume suona: repertori, brani, archivi, un CD come metronomo del testo. La musica alternativa non viene raccontata per curiosità di collezionisti ma funziona da infrastruttura comunitaria che tiene il tempo. Le canzoni sono liturgie laiche, rubrica di tutto ciò che, in piazza o in cella, regge i colpi. Anche quando l’autore fa autocritica su toni e invettive, resta la sostanza: la musica dà forma all’epoca e addestra alla durata. Così la scena musicale diventa un mezzo di egemonia quotidiana, più persuasiva di mille volantini, perché lavora su respiro, coro, canto e controcanto. La politica, prima di essere programma, è metrica.

Fu, quella di quei protagonisti quasi sempre anonimi se non quando finivano stecchiti sui marciapiedi o in galera, un’egemonia costruita dal basso: scuole, corridoi, scritte sui muri, celtiche al collo esibite a sfregio di «Non ti piace? E chissenefrega». Una sorta di pedagogia per clandestini renitenti alla leva del buonsenso. Ci si fa le ossa in un laboratorio povero ma inesauribile, quello del quotidiano: la frase ben scritta sul muro vale un comizio oceanico a Piazza del Popolo, uno slogan azzeccato per rime e concetto, più di una lucidissima tesi accademica. La lezione è questa: l’egemonia è un’attitudine a sovvertire: chi insiste nelle micro‑forme — una biblioteca, un circolo, un periodico locale, una serigrafia di quartiere — cambia il lessico comune, stabilizza reti, istituisce pratiche. È così che la marginalità diventa infrastruttura, quando ci riesce (e non sempre c’è riuscita: «per fortuna o purtroppo», direbbe Gaber).

L’alchimia del montaggio è messa in opera in maniera evidente, e qui ha nomi e pezzi. L’«inorganicità compositiva» rivendicata in apertura prende corpo in materiali ricorrenti: prefazioni e fondi ripresi e incastrati (ad esempio Ricordi di Campo Hobbit III del 15 luglio 2010 e La calda estate del 1980); il CD allegato con nove tracce — Generazione ’78, Le ceneri di Primavalle, Gilles, Ballata per il Capitano… — che fa da colonna sonora e indice emotivo; fotografie con didascalie operative (Campo Hobbit III, lo striscione «Gandalf è vivo e lotta con noi», i tagliandi, gli archivi Lorien); schede e liste finali (riviste consultate, brani citati) che fungono da dorsale documentaria. A questo si aggiungono i dossier londinesi e i bollettini (Orientamenti e Ricerche, Controtempo, con testi come Rigenerazione, Obiettivo sulla Trilateral, Ecologia contro Ecologie, Regionalismo, Autonomismo, Territorio). Non è patchwork decorativo: è un dispositivo. Alterna lampi narrativi e materiali d’archivio, repertori e ricordi, così da restituire l’esperienza per sovrimpressioni controllate senza chiuderla in una parabola pacificata. (Un grazie sobrio per i richiami al mio nome e ai «fondi»).

Intorno a questi nuclei scorrono figure e luoghi che danno spessore: scuola e Nuova Destra, Campi Hobbit come rito, cooperative e centri studi come istituzioni minute. Musica e lutto chiudono il circuito tra corpo, voce e pagina; ogni slancio verso il mito è ancorato da date, documenti, citazioni. Postura costante: tenere insieme canto e conto.

Dove sta l’originalità, allora? Nella continuità di gesto. La gran parte delle narrazioni su quegli anni oscilla tra cronaca penale, memorialistica del lutto e automitologia della militanza. Qui, invece, il gesto è sempre parola che individua, azione che mette in scena, micro-istituzione che prova a restare. Il CD non è gadget, è struttura. L’onomastica dei «cuori neri» è architettura del ricordo. L’esilio non è fuga, è officina. Così il libro smonta la caricatura del reduce e mette al suo posto la figura più esigente dell’esiliato che tenta il ritorno – non a una Itaca identica a sé, ma a una forma più consapevole di appartenenza.

In controluce, si indovina una tesi etica: la generazione non è un’età anagrafica ma una fedeltà operativa. La Generazione ’78 non viene messa su un piedistallo né abbandonata al risentimento. Viene trattata come si trattano le cose vive: con precisione e ritmo. Il resto lo fanno le immagini: un titolo, un nome, una canzone, la foto di una cerimonia, la stanza di un circolo. Con niente indulgenze e misura piena del "così volli che fosse".

Se vuoi capire quella stagione senza le scorciatoie del folclore o del processo sommario, questo libro è una buona chiave. Perché mostra come si fabbrica un «noi» con materiali poveri e testardi: memoria, musica, piccoli istituti, lontananze necessarie. E perché ricorda – senza farlo pesare – che le generazioni passano, ma i dispositivi restano. Chi li sa leggere sa dove sbattere la testa per non morire di maturità.

— 𝗠𝗶𝗿𝗼 𝗥𝗲𝗻𝘇𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮