Gaza, negoziato in corso: le 3 cose che contano (ora)

La flottiglia è finita. Due giorni fa il mare ha parlato con gli abbordaggi e i rimpatri, non con i corridoi. Archiviata la sirena, resta il rumore di fondo: fame, assedio, razzi, raid. Adesso tutto si gioca sul tavolo del negoziato. Qui, ora. E qui non servono poesie: servono 𝐦𝐞𝐜𝐜𝐚𝐧𝐢𝐬𝐦𝐢.

La mia linea è semplice: 𝐨𝐬𝐭𝐚𝐠𝐠𝐢 𝐟𝐮𝐨𝐫𝐢, 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐧𝐭𝐫𝐨, 𝐦𝐚𝐩𝐩𝐞 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐨𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢 𝐞 𝐜𝐨𝐨𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐭𝐞. Tutto il resto è scenografia. E quel che non è scritto, misurabile e verificato non esiste.

Partiamo dagli 𝐨𝐬𝐭𝐚𝐠𝐠𝐢. Finché non vedo un calendario, non una promessa: 𝐥𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐧𝐨𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐢𝐯𝐚, luoghi e orari di consegna, sequenze (“primo blocco entro X, secondo entro Y”), canali di comunicazione e 𝐚𝐫𝐛𝐢𝐭𝐫𝐨 𝐭𝐞𝐫𝐳𝐨 che certifica. I “quasi accordi” fanno curriculum ai portavoce, non vita ai prigionieri. Stessa franchezza per i 𝐩𝐫𝐢𝐠𝐢𝐨𝐧𝐢𝐞𝐫𝐢 𝐩𝐚𝐥𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐞𝐬𝐢: criteri chiari di selezione e trasferimento, niente pesca a strascico dell’ultima notte.

Secondo perno: 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐧𝐭𝐫𝐨. Non pacchi-spot, non selfie alla banchina. 𝐐𝐮𝐨𝐭𝐞 𝐦𝐢𝐧𝐢𝐦𝐞 𝐠𝐢𝐨𝐫𝐧𝐚𝐥𝐢𝐞𝐫𝐞 per acqua, calorie, farmaci, carburante. Numeri pubblici, aggiornati a intervalli fissi, con 𝐩𝐞𝐧𝐚𝐥𝐢 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐦𝐚𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 per chi blocca senza motivo. Se le ambulanze non ripartono e i forni non riaccendono, la tregua è una parola croccante col nulla sotto. Chi parla di umanità senza 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 sta vendendo aria.

Terzo: 𝐦𝐚𝐩𝐩𝐞 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨. Serve una carta militare che non sia un’opinione: segmenti territoriali, punti di controllo, 𝐟𝐢𝐧𝐞𝐬𝐭𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐟𝐮𝐨𝐜𝐨. Ogni zona liberata dev’essere segnata con 𝐜𝐨𝐨𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐭𝐞 e 𝐨𝐫𝐚𝐫𝐢; ogni violazione va registrata e attribuita entro termini certi. Se parlate di ritiro ma i civili non “sentono” la differenza entro ventiquattro ore, state barando. La guerra seria si misura sul rumore che cala, non sui comunicati che crescono.

So già l’obiezione: “È troppo complicato.” No. È scomodo, che è diverso. Complicato è continuare con eroi e demoni a giornata, con barche civili fermate in mare e cargo che evaporano per burocrazia. Scomodo è ammettere che la sola forza che fa legge è la 𝐩𝐫𝐨𝐜𝐞𝐝𝐮𝐫𝐚: quella che inchioda ciascuno alle proprie responsabilità.

E allora ecco il 𝐦𝐚𝐧𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐛𝐫𝐞𝐯𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐧𝐨𝐧 𝐟𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐠𝐢𝐫𝐨.

𝐓𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐚𝐜𝐜𝐨𝐫𝐝𝐨 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞: no riassunti, no “linee guida”. Un documento unico: articoli numerati, allegati tecnici, firme. Se dovete litigare su una parola, meglio farlo oggi che domani con i cadaveri.

𝐀𝐫𝐛𝐢𝐭𝐫𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐟𝐢𝐬𝐜𝐡𝐢𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐞 𝐜𝐚𝐫𝐭𝐞𝐥𝐥𝐢𝐧𝐢: non un “comitato”. Serve un soggetto terzo con mandato scritto a 𝐜𝐞𝐫𝐭𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐫𝐞 consegne, tregue, violazioni e a comminare 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐞𝐠𝐮𝐞𝐧𝐳𝐞. Senza sanzioni, le clausole sono consigli.

𝐂𝐚𝐧𝐚𝐥𝐢 𝐝𝐢 𝐯𝐞𝐫𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚 𝐬𝐮𝐥 𝐭𝐞𝐫𝐫𝐞𝐧𝐨: squadre miste che ispezionano varchi, depositi, presidi ospedalieri. Rapporto standard, tempi di pubblicazione, trasparenza. La segretezza, in guerra, la pagano sempre i civili.

𝐓𝐫𝐞𝐠𝐮𝐚 𝐚 𝐬𝐜𝐚𝐜𝐜𝐡𝐢𝐞𝐫𝐚: si spegne il fuoco per settori e per ore, si vede se regge, si estende. Ogni estensione è guadagnata, non “annunciata”. Così si inchiodano i sabotatori di professione.

𝐒𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐨 𝐬𝐜𝐚𝐠𝐥𝐢𝐨𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐞 𝐬𝐢𝐦𝐦𝐞𝐭𝐫𝐢𝐜𝐨: ostaggi e prigionieri non sono moneta da talk show. Sequenze di scambio con pattuglie e medici pronti, 𝐬𝐭𝐨𝐩 𝐚𝐥 𝐟𝐮𝐨𝐜𝐨 durante le finestre, valutazione clinica al rientro. La vita umana non si tratta in blocco, si tratta bene.

𝐂𝐨𝐫𝐫𝐢𝐝𝐨𝐢 𝐮𝐦𝐚𝐧𝐢𝐭𝐚𝐫𝐢 𝐜𝐨𝐧 𝐧𝐮𝐦𝐞𝐫𝐢 𝐞 𝐨𝐫𝐚𝐫𝐢: cinque voci bastano — acqua, farina, farmaci, carburante, evacuazioni mediche — con soglie minime e 𝐠𝐫𝐚𝐟𝐢𝐜𝐢 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐢. Ogni giorno sotto soglia accende un allarme rosso e comporta correzioni immediate del perimetro di sicurezza.

𝐋𝐨𝐠 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐯𝐢𝐨𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢: un registro unico, con data, luogo, unità coinvolte, evidenze (video, radio, radar). Pubblicato a cadenza certa. Chi manipola il registro è fuori dal gioco. Punto.

Lo so: molti preferiscono slogan e indignazione. Io preferisco gli 𝐨𝐫𝐚𝐫𝐢. Perché sono gli orari che salvano le persone: l’ora in cui una madre sa che passa il convoglio dell’acqua, l’ora in cui un ospedale riceve anestetici, l’ora in cui un padre riabbraccia una figlia. L’orario è la differenza fra politica e teatro.

E l’Europa? Smetta la passione per le parole e adotti il mestiere della 𝐥𝐨𝐠𝐢𝐬𝐭𝐢𝐜𝐚. Paghi 𝐢𝐬𝐩𝐞𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 e 𝐬𝐜𝐨𝐫𝐭𝐞 nei porti terzi, metta navi con mandato chiaro per 𝐭𝐫𝐚𝐬𝐟𝐞𝐫𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐜𝐢, si prenda la noia di gestire 𝐝𝐚𝐭𝐢 𝐩𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐢 sugli aiuti. Se non ha il coraggio di spingere politicamente, almeno abbia la decenza di 𝐬𝐩𝐢𝐧𝐠𝐞𝐫𝐞 𝐜𝐚𝐦𝐢𝐨𝐧 e 𝐦𝐨𝐧𝐢𝐭𝐨𝐫. Non c’è vergogna nella manutenzione del reale.

Qualcuno dirà: “Non c’è fiducia.” Già. Per questo servono 𝐬𝐭𝐫𝐮𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢, non sentimenti. Le parti in campo non si fideranno mai l’una dell’altra; possono però 𝐭𝐞𝐦𝐞𝐫𝐞 un arbitro con tabellone e sanzioni. La civiltà nasce quando la paura del regolatore supera quella del vicino armato.

Chiudo dove ho cominciato. La flottiglia ha fatto il suo: ha suonato la sirena. È 𝐚𝐫𝐜𝐡𝐢𝐯𝐢𝐚𝐭𝐚. Il negoziato è 𝐚𝐩𝐞𝐫𝐭𝐨. Può diventare storia solo se smette di parlare la lingua dei comunicati e adotta quella dei 𝐦𝐨𝐝𝐮𝐥𝐢, delle 𝐦𝐚𝐩𝐩𝐞, dei 𝐜𝐫𝐨𝐧𝐨𝐦𝐞𝐭𝐫𝐢. Se vedrò 𝐨𝐬𝐭𝐚𝐠𝐠𝐢 𝐟𝐮𝐨𝐫𝐢, 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐧𝐭𝐫𝐨 a ritmo misurabile, 𝐦𝐚𝐩𝐩𝐞 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 con orari e coordinate rispettati, lo scriverò e mi prenderò la responsabilità del mio “finalmente”. Finché non lo vedo, resto nel mio 𝐬𝐜𝐞𝐭𝐭𝐢𝐜𝐢𝐬𝐦𝐨 𝐨𝐩𝐞𝐫𝐚𝐭𝐢𝐯𝐨. E zero alibi.

— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚