Gaza, attenzione: Firmare non è finire

Gaza, attenzione: Firmare non è finire

𝐓𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐞 𝐝𝐚 𝐯𝐞𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐦𝐚𝐫𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐜𝐞

Accordo firmato, verità da provare. Finché gli impegni non diventano fatti, chiamarla pace è marketing. Israele e Hamas hanno accettato la fase uno: scambio integrale ostaggi–prigionieri, ritiro parziale dell’IDF a linee definite, corsie per gli aiuti. Tutto vero solo se il silenzio delle armi dura più di un ciclo di notizie e se le liste diventano autobus, non comunicati. Si canta vittoria da entrambe le parti, ma il lessico è quello dei contabili: percentuali di territorio, finestre temporali, clausole sospese alla ratifica. La politica, intanto, zoppica: da un lato una coalizione israeliana spaccata fra chi vuole chiudere e chi sogna l’eterno “fino alla vittoria”; dall’altro un Hamas che vende come «fine della guerra» (dichiarazioni Hamas; Reuters, 8–9 ottobre 2025; Al Jazeera live, 9–10 ottobre 2025) ciò che è, al meglio, l’inizio di un corridoio stretto, dove ogni passo verrà pagato cash.

Il nodo non è la firma, ma ciò che non c’è nella firma: governance di Gaza nel frattempo, verifica del disarmo, qualità del ritiro (linee, profondità, tempi), meccanismi di sanzione se qualcuno bara. Senza questi bulloni, ogni tregua è un ponte Bailey: regge finché non passa il primo carro armato. Chi giura che «è fatta» scambia il primo gradino per la vetta; chi annuncia il fallimento a prescindere si rifiuta di salire. La verità è più scomoda: due anni di guerra hanno prodotto un equilibrio di stanchezza, non di riconciliazione. Per questo serve un criterio minimo, un termometro del negoziato che non sia propaganda: 1) armi tacite davvero (non “più o meno”); 2) ostaggi a casa, tutti, vivi e deceduti, con scambi trasparenti; 3) valichi aperti a flusso continuo di aiuti e materiali da ricostruzione sotto monitoraggio terzo. Se questi tre aghi si muovono insieme, il resto (titoli, visite, tweet) è rumore; se uno solo resta fermo, l’intero marchingegno torna indietro.

L’Italia gioca la carta che conosce: massimalista nei comunicati, minimalista negli impegni operativi. Palazzo Chigi applaude la “fase uno”, lega il giudizio al ritorno degli ostaggi e ribadisce la linea dei due Stati. Tajani, in coerenza con il governo, dettaglia il profilo operativo: logistica, corridoi, eventuale peacekeeping solo con mandato forte e coperture UE/NATO/ONU. La postura è di graduale compatibilità: evitare strappi, monetizzare la prudenza, restare nel cono occidentale senza riconoscimenti unilaterali. Funziona se la tregua regge e gli scambi si vedono; altrimenti suona come diplomazia d’attesa.

Non vorrei peccare di troppo pessimismo e perciò aggiungo. Le paci nascono spesso così: dal logorio, dalla pressione incrociata di piazze e sponsor esterni, dall’interesse nudo a non precipitare in un imbuto senza ascensore, dai compromessi fra negoziatori e fra negoziatori e arbitri. A chi firma oggi spetta un compito semplice e immenso: produrre fatti verificabili. L’alternativa è ricominciare, con il conto a crescere e la memoria a imputridire.

— 𝐀𝐫𝐢𝐬𝐭𝐞𝐚