Corpi di minorenni, bilanci da adulti
𝗧𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗮 𝗴𝗶𝘂𝗱𝗶𝗰𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗲 𝗿𝗮𝗴𝗮𝘇𝘇𝗶𝗻𝗲 𝘀𝘂 𝗧𝗶𝗸𝗧𝗼𝗸, 𝗽𝗼𝗰𝗵𝗶𝘀𝘀𝗶𝗺𝗶 𝗮 𝘁𝗼𝗰𝗰𝗮𝗿𝗲 𝗹’𝗮𝗹𝗴𝗼𝗿𝗶𝘁𝗺𝗼 𝗲 𝗶 𝗽𝗿𝗼𝗳𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗱𝗶 𝗰𝗵𝗶 𝗹𝗲 𝘂𝘀𝗮 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗺𝗲𝗿𝗰𝗲
TikTok è il nuovo capro espiatorio da salotto. La vecchia “discoteca malfamata” aggiornata in app: tutti ci campano sopra, tutti fingono di scandalizzarsi. Politici, opinionisti, psicologi da talk show, femministe da panel sponsorizzato. Guardano le tredicenni che ballano in camera, in bagno, nel salotto di casa, alzano il sopracciglio, dicono “degrado”, “iper-sessualizzazione”, “dove andremo a finire”. Poi chiudono la diretta, incassano il cachet e tornano a scrollare esattamente gli stessi video che li fanno campare di commenti indignati.
Il trucco è antico: prendersela con i corpi più fragili per non toccare i poteri più forti. Il dito è puntato sulla ragazzina col telefono, sul genitore “distratto”, sul professore che “non educa”. Lo sguardo non si alza mai verso chi fa soldi veri: piattaforme, agenzie pubblicitarie, brand che infilano i loro prodotti dentro ogni trend. Il corpo delle minorenni è diventato il carburante perfetto dell’economia dell’attenzione: abbastanza giovane da agitare la paura morale, abbastanza “adulto” da generare curiosità malsana, abbastanza indifeso da non avere un avvocato.
La parola magica che tiene in piedi il teatrino è “consenso”. Ci abbiamo messo decenni per far passare l’idea che neppure tra adulti il “no” può essere aggirato. Adesso è pieno di gente pronta a sostenere che una tredicenne che si filma da sola, che clicca “pubblica”, che imita un balletto virale, stia esprimendo un consenso libero, maturo, consapevole. È una bugia comoda, tutta degli adulti. Una minorenne non è un contraente digitale: non dispone delle informazioni, degli strumenti, della forza contrattuale di chi sta dall’altra parte dello schermo. Evocare la sua “scelta” serve a spostare sul soggetto più debole il peso di un sistema costruito da altri. È un modo elegante per dire: “se si fa male è colpa sua”.
Intanto l’algoritmo lavora. Non guarda l’età, guarda i numeri: tempo di visione, condivisioni, commenti. Se un certo tipo di contenuto trattiene lo sguardo, quel contenuto viene spinto. Una posa un po’ ammiccante, un vestito corto, un trend che sfiora il limite ma non lo supera apertamente: è il territorio perfetto. L’ambiguità porta interazioni. L’indignazione pure. Ogni volta che un adulto commenta “vergogna, ma i genitori dove sono?”, sta facendo esattamente quello che il sistema vuole: alimentare traffico, dati, profili, incassi. La piattaforma non ha morale, ha metriche.
Sul piano legale ci raccontiamo la favola del “vietato ai minori”. Età minima per iscriversi, controlli parentali, popup informativi. Facciata. Chiunque abbia visto un undicenne con uno smartphone sa quanto tempo gli serve per mentire sulla data di nascita o usare un account di comodo: meno di un minuto. E le aziende lo sanno benissimo. Si mettono in regola con la formula magica: “noi abbiamo messo le regole, se poi l’utente le aggira, problemi suoi”. È come il locale che appende il cartello “non si serve alcol ai minori” e poi riempie il bancone di sedicenni, purché paghino. Con una differenza: qui non parliamo di una sbronza di una notte, ma di tracce digitali che restano anni, di materiale che può essere salvato, riusato, venduto, ricattatorio.
Quando succede il disastro – video condivisi fuori controllo, ricatti, grooming, devastazione psicologica – la sceneggiatura è già pronta. Titoli sui “ragazzini senza freni”, interviste sui “genitori incapaci”, talk show sulla “mancanza di valori”. Nessuno che apra il bilancio delle piattaforme e dica: quanto avete guadagnato in pubblicità grazie al traffico generato da quei contenuti? Nessuno che chieda perché l’architettura stessa dell’app è costruita per spingere chiunque, anche un minore, a misurare il proprio valore in visualizzazioni e in like.
A questo punto entra in scena anche una certa versione addomesticata del femminismo di superficie. Slogan sulla libertà del corpo, sull’auto-espressione, sull’empowerment. Tutte parole che, prese sul serio, servirebbero a difendere le ragazze. Ma che, mescolate con il linguaggio del marketing, diventano un lasciapassare per qualsiasi cosa stia in piedi in uno spot. “Se una minorenne si mostra è una sua scelta, chi sei tu per giudicare?”. La risposta è semplice: non si tratta di giudicare lei, ma chi costruisce l’ambiente in cui l’unico modo per essere vista è mostrarsi come merce. Se l’algoritmo ti premia quando ti esponi e ti cancella quando non lo fai, quella non è libertà, è condizionamento.
La parola “educazione” viene tirata fuori ogni volta che la cronaca esplode. “Educhiamo i ragazzi all’uso consapevole”, “serve educazione affettiva”, “serve educazione digitale”. Giusto, sacrosanto. Ma metà del discorso manca sempre: chi educa i poteri forti? Dove sono i corsi obbligatori per i dirigenti delle piattaforme su privacy, tutela dei minori, impatto psichico dell’iper-esposizione? Dove sono le sanzioni vere, non i buffet di Bruxelles, quando un’azienda costruisce sistemi che rendono facilissima la circolazione di contenuti in cui i minorenni sono protagonisti in modo ambiguo? Questa asimmetria è il cuore del problema: responsabilità massime in basso, responsabilità minime in alto.
Non si tratta di assolvere i genitori. Ci sono padri e madri che usano i figli come accessori da vetrina, che aprono loro profili personali in tenera età per raccogliere follower, che li spingono nelle challenge perché “così magari li notano”. Ma la narrazione “tutto colpa della famiglia” serve soprattutto a non guardare il quadro più largo: una società in cui il successo passa per la visibilità, la visibilità passa per il corpo, il corpo delle minorenni è la materia prima più economica e disponibile. Non costa niente, genera emozione, non ha potere contrattuale. È il sogno di qualsiasi industria senza scrupoli.
Se prendessimo sul serio la frase “proteggiamo i minori”, le conseguenze sarebbero concrete e dolorose per qualcuno che conta. Vorrebbe dire imporre limiti duri alla profilazione dei dati dei minorenni. Vorrebbe dire restringere in modo reale la possibilità per un under 16 di aprire account pubblici, non solo a colpi di caselle da spuntare. Vorrebbe dire multare in modo pesante ogni algoritmo che maximizza copertura su contenuti in cui i minorenni sono esposti in modo problematico. Vorrebbe dire, soprattutto, ammettere che il consenso di chi non ha ancora piena capacità di capire la portata di un gesto non può scaricare da solo la responsabilità degli adulti.
La verità è che l’indignazione attuale è a basso costo. Non tocca gli azionisti, non tocca i manager, non tocca i brand. Sfoga solo la nostra paura, il nostro senso di colpa, la nostra incapacità di fare i conti con il fatto che abbiamo cresciuto una generazione dentro uno schermo e dentro un’economia che misura il valore in attenzione. È più rassicurante dire “i giovani di oggi non hanno limiti” che chiedersi chi ha costruito un sistema in cui il limite non è previsto perché è antieconomico.
Allora il punto non è difendere la “purezza” delle ragazzine, parola inquietante e paternalista. Il punto è difendere il loro diritto a sbagliare senza che l’errore diventi una condanna a vita scolpita in video. Difendere il loro diritto a esplorare identità, corpi, desideri senza che un algoritmo trasformi tutto in spettacolo permanente. Difendere il principio che chi trae profitto dall’esposizione dei minorenni abbia obblighi enormemente superiori rispetto a chi, minorenne, si espone senza capire tutti i rischi.
Finché continueremo a giudicare duramente il balletto di una tredicenne e con infinita cautela chi ci guadagna, non staremo proteggendo nessuno. Staremo solo tenendo in piedi un mercato dove il corpo delle adolescenti è materia prima e il nostro moralismo è un imballaggio decorativo, utile per farci sentire a posto. La domanda vera non è cosa fanno le ragazzine su TikTok. La domanda vera è: quanto siamo disposti a perdere, in termini di soldi e potere, pur di non usarle più come materia prima?
— 𝗔𝗿𝗶𝘀𝘁𝗲𝗮