Aspettando Penelope. Riscoprire la divinità femminile oltre l'isteria politicamente corretta - di Matteo Carnieletto
𝗦𝗰𝗵𝗲𝗱𝗮 𝗟𝗶𝗯𝗿𝗼
𝗧𝗶𝘁𝗼𝗹𝗼: Aspettando Penelope. Riscoprire la divinità femminile oltre l’isteria politicamente corretta
𝗔𝘂𝘁𝗼𝗿𝗲: Matteo Carnieletto
𝗣𝗿𝗲𝗳𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲: Flavia Costadoni
𝗘𝗱𝗶𝘁𝗼𝗿𝗲: Passaggio al Bosco (collana Agoghè)
𝗔𝗻𝗻𝗼: 2025
𝗔𝗰𝗾𝘂𝗶𝘀𝘁𝗮: https://www.passaggioalbosco.it/aspettando-penelope/
L'idea forte è semplice: Penelope non è la «moglie che aspetta», ma l’architetta di una tenuta interiore; l’attesa non è inerzia, è lavoro sulla forma. Carnieletto sceglie un percorso divulgativo che intreccia Omero con letture moderne (Cesare Catà, Campbell, Jean Shinoda Bolen, Mariolina Ceriotti Migliarese, Margaret Atwood) e ricostruisce l’archetipo di una femminilità perìfron - «assennata, prudente, oculata» - contro il presente che confonde forza con rumorosità. Il libro funziona quando resta vicino ai testi e ai gesti: la tela, il letto d’ulivo, il sonno visitato dai sogni.
Carnieletto tiene il passo migliore nel lavoro «di scena». L’attesa, La tela, A letto con Penelope: i capitoli seguono episodi omerici e li riportano a una pratica quotidiana. La Penelope omerica è detta perìfron decine di volte; qui diventa una grammatica di condotta: riconoscere il vuoto senza farsene inghiottire, differire la scelta per proteggere il centro, trasformare il tempo in prova di verità. L’esempio del talamo scavato nell’ulivo - inamovibile perché radicato - è il nodo semantico del libro: non si sposta il letto come non si sposta il baricentro della relazione, se c’è. È una buona traduzione etica dell’episodio.
La costellazione di riferimenti è ampia. Campbell restituisce il ruolo del mito come «manuale di rotta»; Bolen offre l’asse Artemide/Afrodite per leggere la doppia natura (indipendenza/relazione); Migliarese fornisce la diade «erotico e materno» come equilibrio pratico. Atwood è il controcanto: il retelling come riscrittura ideologica che, per l’autore, depotenzierebbe l’archetipo. Carnieletto non fa il filologo e non finge di farlo: lavora per figure, connetti e propone. In questo registro, l’argomentazione è chiara e leggibile.
I meriti, però, sono concreti. La scrittura è lineare, la costruzione per blocchi brevi aiuta la lettura, la selezione delle scene è pertinente. Il capitolo sul sonno restituisce bene l’idea greca del sogno come «visita»: Penelope è personaggio liminare che riceve messaggi; l’oggi iperconnesso ha smarrito quella soglia. Anche il lavoro sulla metis di Ulisse - l’arco che «canta» come una cetra, il gesto che prefigura la cura - si traduce in una piccola scena didattica: corteggiare è avvicinare, non possedere.
Sul piano culturale, Aspettando Penelope sceglie una via chiara: riportare l’archetipo nella pratica. Non una Penelope-mito da museo, ma una figura-strumento: come si difende il proprio centro, come si distingue lo stare dall’aspettare, come si disinnescano i Proci (che sono le distrazioni, le pressioni, le urgenze altrui). Il libro convince quando resta su questo terreno operativo. Quando alza il volume dello scontro culturale, l’oggetto si sfoca.
Intendiamoci, si tratta di piccole obiezioni, da registrare senza enfasi. Primo: un essenzialismo di genere che, nel tentativo legittimo di restituire «una femminilità non fragile», tende a stabilizzare tratti (bellezza, dedizione, attesa) che storicamente migrano e socialmente si negoziano. La coppia «erotico/materno» funziona come bussola, ma rischia di diventare mappa totale. Inoltre, quando affiora la contrapposizione con «l’isteria politicamente corretta», l’attenzione si sposta dai testi alla polemica d’attualità e l’anticipo di tesi toglie ossigeno alla verifica. Secondo: gli innesti contemporanei (social, statistiche sulla sessualità, retoriche del lavoro) funzionano quando illuminano l’episodio omerico. Zoppicano un po' quando generalizzano. Esempio: accostare la tela alla dinamica del feed che «si rifà e si disfa» (postare di giorno, ripensare la sera) aiuta a capire il gesto di Penelope. Sostenere invece che «le relazioni oggi falliscono perché una generazione non sa attendere» sposta il discorso dal testo a un sociologismo indimostrato. Terzo: un appunto di metodo. La polemica contro il retelling femminista meriterebbe un capitolo di confronto serrato — con citazioni, passi, risposte testuali — per evitare il rischio di confutare più un «clima» che testi e contesti precisi. In compenso, la tessitura con Catà funziona: il lessico (perìfron, dia gunaikòn), l’interpretazione del talamo, la dialettica con Circe/Calipso ed Elena/Clitemnestra costruiscono bene il profilo di Penelope «divina tra le donne» senza scivolare nella santificazione.
In controluce, resta una tesi utile: l’attesa come arte. Non rinuncia, ma competenza temporale. Non immobilità, ma montaggio di gesti minimi che tengono la forma nelle giornate sbilenche. Se il libro spinge qualche pedale ideologico di troppo, consegna però un prontuario pratico: dare nomi alle tentazioni (i Proci), proteggere il baricentro (il letto), lavorare ogni giorno sulla forma (la tela), accettare la visita del sogno senza farsi colonizzare dagli schermi (il sonno).
Alla fine la consegna è semplice e di lunga durata: riaprire i canti XIX e XXIII dell’Odissea, mettere Catà accanto ad Atwood, tenere in tasca la grammatica perìfron. L’attesa non è una sosta: è cura del centro. Se il talamo non mette radici, la tela si sfila.
- 𝗟𝗮𝘂𝗿𝗮 𝗙𝗼𝗿𝘁𝗲